giovedì 21 dicembre 2006

Il farcito banchetto natalizio mediorientale

Numerose sono ormai le voci che tengono banco domandanosi se il Medio Oriente stia viaggiando verso una regionale guerra civile. Come primo, le quotidiane carneficine d’iracheni, che il passare del tempo non sembra arrestare. Un giorno le macabre statistiche giocano dalla parte degli sciiti, un giorno dalla parte dei sunniti. Come secondo, il Libano. Dopo aver assaporato l’indigesto antipasto estivo con la guerra contro Israele, ora con l’omicidio del ministro Pierre Gemayel e le “oceaniche” manifestazioni di piazza, è stato servito sul vassoio dei media internazionali l’idea di una prossima guerra civile. Per finire, i violenti scontri tra Hamas e Fatah, che hanno dato come unico frutto quello di innalzare la tensione nel sempre vivo calderone palestinese. Lotte intestine le chiamano. In pieni tempi di pax natalizia. Festività natalizie che rappresentano solo un agrodolce contorno.

Le comunità cristiane del Medio Oriente, in Giordania, in Palestina, in Iraq, ma soprattutto in Libano, la culla dei cristiani mediorientali, non sembrano però perdersi d’animo. La sensazione che si respira in Libano ne è un esempio. Due blocchi politici contrapposti che si fronteggiano, per ora, solo a parole. La comunità cristiana rappresentata con pari forze in entrambe le parti. Centro città della capitale che è invaso stabilmente da centinaia di manifestanti da una parte, e forze militari dall’altra, divisi da gomitoli di attorcigliato filo spinato. Ma il centro città di Beirut è anche il luogo che per eccellenza rappresenta la fama del Libano come paese dei servizi. Negozi, ristoranti di lusso, bar sgargianti, hotel e zona pedonale per il passeggio. Normalmente una pioggia di dollari cade sui negozianti in questo finale di stagione. L’atmosfera quest’anno è però molto più surreale e non sono molti quelli che azzardano l’apertura nel mezzo di questo trambusto politico. Ecco allora innalzarsi gli attacchi contro i manifestanti “che non permettono ai libanesi di attendere la nascita di Gesù con la giusta tranquillità”, ecco che “i nostri bambini non potranno vivere il Natale con pace e serenità”. Voci di politici e gente comune, cristiani e musulmani.

Beirut però ha ormai acquisito la capacità di creare amnesiaci compartimenti stagni, immuni dai problemi politici che la perseguitano. Si riesce così ugualmente a respirare un’atmosfera natalizia sia nelle zone cristiane, sia in quelle musulmane. Con un costume, quello dell’albero di Natale, che ormai trascende le religioni. Anche tra le centinaia di tende che assediano nel centro città il palazzo del governo, si consuma una parte del Natale libanese. Una buona parte dei manifestanti è cristiana. Già dai primi giorni del sit-in, che si è caratterizzato da subito per essere “open-ended”, senza fine, i manifestanti, oltre a portarsi tende, televisioni, radio e coperte, hanno cominciato velocemente a decorare il “giardino di casa”. Le tende dei partiti cristiani si sono subito adornate di lucine multicolori ed i pochi alberi del centro città sono stati ricoperti di palline colorate. Ma come la bandiera del partito cristiano sceso in piazza è arancione, le palline che li ornano non potevano che essere rigorosamente di questo colore. Anche il tradizionale berretto rosso con pon-pon bianco, vuoi la coincidenza natalizia, ha assunto uno sfolgorante colore arancione, ed i manifestanti sembrano indossarlo compiaciuti. Negli ultimi giorni un altissimo abete metallico è stato eretto, fra gli applausi generali, nel bel mezzo dell’accampamento dell’opposizione. Azione e reazione. I partiti governativi hanno risposto esponendo, dalla parte opposta alla piazza dei manifestanti, un numero di abeti pari ai martiri della rivoluzione del 2005.

Fa capolino un abete adornato di sole palline bianche, il colore del partito cristiano falangista, storico antagonista degli arancioni. La condizione natalizia sta esaltando il disaccordo attuale all’interno della comunità cristiana libanese. Un dissidio portato agli estremi dai loro leader, perlopiù capi di storiche famiglie libanesi. Nel mezzo, timidi tentativi per ritornare al tavolo delle trattative ed il Patriarca cristiano-maronita che cerca di evitare la fitna, la discordia, all’interno della comunità. Complicato. Alberi, palline colorate, tavole imbandite, commensali discutendo, folle in strada, e divergenze “famigliari” all’interno della comunità. Tutti gli ingredienti di un tradizionale Natale. Mancano ancora i regali. Poi si aspetterà bramosamente di vedere a chi la Befana destinerà il carbone nero...

martedì 28 novembre 2006

Nuova rivoluzione o guerra civile?

Martedì pomeriggio le linee di telefonia mobile erano fuoriuso a Beirut, e quando questo accade, non ci si può mai aspettare niente di buono. Gli ultimi due tormentati anni nella capitale libanese ne hanno fatto una prova evidente o un presagio funesto di futura tragedia. La prima reazione, di conseguenza, è quella di accendere la televisione. Martedi scorso si è tragicamente confermata questa prassi. Linee fuoriuso, televisione accesa su uno dei molteplici canali libanesi, immagini dall’ospedale dove era stato portato il corpo del ministro Pierre Gemayel. Prima ricostruzione: pieno giorno, periferia cristiana della capitale, un commando “mafioso” ferma la macchina di Gemayel, lo fredda e scappa fra la folla sventagliando raffiche di proiettili per farsi largo. Quella dei Gemayel è sicuramente una delle famiglie più importanti del Libano, di quelle che ne hanno fatto la storia, ma anche una delle famiglie più “insanguinate”. Bashir, zio di Pierre, fu l’ultimo, nel 1982, ad essere assassinato per mano d’ignoti mandanti, proprio nella sede del partito falangista. L’uccisione di Bashir Gemayel, presidente libanese da meno di un mese, provocò, in nome della vendetta, quella ormai rinomata tragedia che va sotto il nome di Sabra e Chatila. Le milizie cristiane falangiste, battezzate cinquanta anni prima dallo stesso Hitler, ed allora alleate con gli israeliani (scherzi della storia), entrarono nei due campi profughi palestinesi alla periferia della capitale. In quattro giorni non-stop massacrarono più di duemila persone, principalmente donne, bambini e civili non armati. La guerra civile libanese, che sembrava si fosse definitivamente fermata, riprese vigore. Le truppe internazionali, tra cui gli italiani, fecero il loro ritorno in Libano, con la coscienza macchiata di sangue innocente, dopo che avevano lasciato frettolosamente il paese pochi giorni prima in seguito all’evacuazione delle milizie palestinesi. Martedì, in tutti tornò alla memoria l’ultimo Gemayel assassinato e le conseguenze di quell’evento. I negozi chiusero le serrande in un batter d’occhio ed i libanesi si riversarono nelle strade per raggiungere frettolosamente un luogo sicuro. Le truppe italiane, questa volta nel paese, ma ad un centinaio di km di distanza, alzarono subito il livello di allerta.

Lo spettro della guerra civile, in una situazione già tesa, non ha faticato nel prendere piede. Nelle settimane precedenti l’omicidio, molti libanesi lo sventolavano apertamente, per allontanarne lo spauracchio, per scongiurarla. Non c’è voluto molto perchè s’insediasse in tutte le redazioni del mainstream internazionale e si alzasse in un coro unanime: Libano sull’orlo della guerra civile. Anche le televisioni locali hanno lanciato nel palinsesto notturno immagini di repertorio della guerra civile conclusasi al principio degli anni novanta. Nella realtà, nelle ore successive all’omicidio, si è assistito a pochi incidenti, piccoli scontri, ed alcune scaramucce all’interno della stessa comunità cristiana, dovuto al fatto che i suoi leader sono schierati in due opposti schieramenti. Giovanissimi i protagonisti dei disordini. Il funerale di Gemayel, nei giorni successivi, si è trasformato, come ormai consuetudine in questo paese, in un’oceanica manifestazione di massa ineggiante ad una seconda rivoluzione dei cedri per la libertà del popolo libanese.

La carne sulla brace libanese è parecchia. La guerra estiva israeliana che ha messo in ginocchio il paese, le truppe internazionali schierate nel sud del paese, il tentativo dell’opposizione di far cadere il governo, gli omicidi politici, il tribunale internazionale per giudicare i colpevoli dell’omicidio Hariri, una seconda rivoluzione per la “libertà e la democrazia”, le tensioni crescenti all’interno della comunità cristiana e la disobbedienza civile ineggiata dagli Hezbollah nei prossimi giorni. Una matassa difficile da sbrogliare. Rivoluzione e guerra civile non si complementano, viaggiano su binari in opposte direzioni.

giovedì 16 novembre 2006

La febbre del confronto. Le elezioni universitarie termometro della situazione libanese

Le elezioni dei rappresentanti degli studenti all’Università Americana di Beirut stanno lasciando preannunciati strascichi. I risultati previsti per mercoledi sera però, evento unico nella storia dell’università, sono stati posticipati al giovedi mattina. Versione ufficiale: l’università non era pronta a fronteggiare una possibile escalation della tensione ed ha preferito spostare lo scrutinio alla mattina seguente, nel tentativo di raffreddare gli infuocati animi. Il primo rumore a circolare, riportato anche dall’emittente libanese NewTv, è stato quello di una diretta interferenza dell’ambasciata americana, che ha fatto pressione sugli organismi universitari affinchè rinviassero i risultati ufficialmente previsti per mercoledi sera.

La prima vera “battaglia” politica tra la coalizione del 14 marzo e quella del 8 marzo, dopo la disastrosa guerra estiva, ha visto come scenario quello dell’Università Americana, la più grande in numero di studenti, fra le università nazionali e quella con maggior “peso politico”. Non è un caso che l’attuale Primo Ministro Fouad Siniora si sia graduato proprio in questa università. Così come molti degli attuali membri del parlamento nazionale. La maggioranza delle altre università libanesi ha invece preferito rinviare a data da stabilirsi le elezioni dei rappresentanti degli studenti, sia per la difficile situazione post-guerra, sia per l’attuale tensione a livello nazionale.

Un vero e proprio termometro dell’attuale situazione politica libanese, nel mezzo di un acceso dibattito nazionale su una nuova spartizione del potere confessionale, la fuoriuscita di sei ministri dal Gabinetto del governo Siniora, perlopiù sciiti dei partiti di Amal ed Hezbollah, l’approvazione da parte del governo del tribunale internazionale per giudicare l’assassinio di Hariri, e le esternazioni dell’ormai inviso Presidente Emile Lahoud.

Lo scontro non è stato solo politico, ed alcune scaramucce si sono registrate sia all’interno che nelle strade adiacenti l’università. Scaramucce provocate principalmente dalla massiccia presenza dei supporter delle varie fazioni politiche, accorsi numerosi a far piantone e cantare slogan ai cancelli dell’università. La strada che fiancheggia l’università si è tramutata per tutta la giornata di mercoledi in un vero e proprio carosello di automobili, ognuna sventolando le rispettive bandiere di aderenza politica. La presenza, in quantità considerevole e con mezzi corazzati, di polizia, esercito e reparti speciali in tenuta antisommosa, ha scoraggiato i più facinorosi, ma non ha potuto evitare lievi scontri tra le opposte fazioni.

Principale leitmotiv della battaglia politica, gli ormai storici identificanti del 14 marzo e del 8 marzo, in riferimento agli eventi della cosiddetta primavera dei cedri del 2005. Nonostante le regole dell’università vietassero il riferimento diretto a qualsiasi partito politico esterno, le liste nascondevano un’apparenza chiara a tutti. Da una parte, i partiti di Hariri, Jumblatt ed il dottor Geagea, rappresentanti il governo attuale, e dall’altra, il generale Aoun, Berri e Nasrallah, la nuova opposizione. In mezzo, gli “indipendenti”, un’alleanza tra gruppi di sinistra, tra cui i Comunisti ed il collettivo NoFrontiers, che senza troppi supporti esterni, sia economici che politici, non hanno potuto condurre una campagna elettorale contundente, non sono riusciti a presentare candidati per numerosi posti, ed hanno così lasciato spazio in molte facoltà al puro bilateralismo che rispecchia la convulsa situazione nazionale.

In palio: novantasei posti di rappresentanti per un totale di sei facoltà, il cui piatto più appetitoso era rappresentato da quella di Arte&Scienze. Risultato: entrambi vincitori, e lieve soddisfazione della coalizione di sinistra, sia per l’ottenimento di alcuni rappresentanti, sia per la risposta degli studenti al caldeggiato invito alla scheda bianca. Mentre la coalizione di Hariri e del Future Movement festeggiava nelle strade fuori dall’università, gli arancioni del Free Patriotic Movement, si riunivano con i gialli ed i verdi di Hezbollah ed Amal, gridando alla vittoria all’interno del campus. Con un contundente discorso il rappresentante di Tayyar, il movimento di Aoun, ha prima gridato alla sonante vittoria, data dalla conquista di quattro facoltà su sei, da parte della sua coalizione. Poi ha invocato lo spettro dei brogli, dovuto alla presenza in una cassetta elettorale di quattro schede in più rispetto ai possibili votanti totali del seggio. Per concludere, ha alzato prepotentemente la voce “per una caduta prima del governo nazionale e poi della stessa amministrazione dell’università”. Cavallo di battaglia, la lotta alla piaga della corruzione libanese. Tutto speculare ai discorsi dei “modelli” nazionali.

Alle accuse di brogli si è aggiunto un’altra voce in mattinata, sul tentativo di interferenze esterne nei riguardi della posizione degli studenti giordani nelle elezioni, la comunità straniera maggioritaria all’interno dell’università. Secondo molti, la stessa ambasciata giordana si sarebbe esposta direttamente, intuendo la controtendenza di quest’anno, per evitare che i suoi connazionali votassero per le liste del 8 marzo, ma si schierassero invece dalla parte dei seguaci di Hariri, secondo la tendenza degli ultimi anni. I risultati di questa possibile interferenza sui singoli studenti non sono facilmente interpretabili.
In un paese che molti libanesi non lesinano nel definire sull’orlo del baratro di un’altra inconciliabile guerra civile, le prospettive per il dialogo non sono delle più rosee. Si dice che la futura classe politica libanese esca principalmente dall’università americana, ed alla luce dello svolgimento delle sue elezioni “democratiche” interne, ciò getta un cono d’ombra sul futuro del paese.

All’orizzonte intanto, una complicata trama politica da sbrogliare. Il paese dei cedri ha assistito negli ultimi due anni ad una “rivoluzione”, il ritiro della Siria dal suo territorio, numerosi omicidi politici, una guerra contro Israele, ed ancora deve passare un anno prima della data dell’elezione del nuovo presidente della repubblica, obiettivo a cui sembra che tutte le forze politiche vogliano arrivare con la maggior forza possibile. In quel momento si deciderà molto del futuro del Libano.

domenica 12 novembre 2006

Portatori di pace

Intervallo. Salotti diplomatici internazionali. Ritiro truppe dall’Iraq, conferenza internazionale per l’Afghanistan, indipendenza del Kosovo.

Intervallo. Sud del Libano. Popolazione. Migliaia di bombe inesplose sono ancora nascoste nei campi. Ne rendono impossibile la coltivazione e rubano le vite di bambini che giocano attratti da questi oggetti luccicanti. La gente fatica a rimettersi in cammino, ricominciare da zero, ricostruire, l’uranio impoverito, le bombe al fosforo. Sembra che almeno l’arrivo delle truppe internazionali abbia portato una ventata di prosperità. Comincia il business, servono traduttori, servono autisti, servono ristoranti, servono bar. Un traduttore si dice che guadagni 1200$ al mese, mentre una guida 800$. Nessuno si lamenta più dei soldati ghanesi o dei pachistani che non spendevano mai una lira. Ora ci sono italiani, francesi, spagnoli. Tagliatelle, Brie, Tortilla. A volontà.

Intervallo. Sud del Libano. Inverno alle porte. Forze internazionali d’interposizione. Italiani. Hariss è un paesino del sud del Libano, nel comprensorio di Bint Jbeil. Questa zona è uscita annichilita dalla guerra estiva. Interi villaggi sono ridotti in macerie e qualche famiglia è ancora costretta a vivere in improvvisati accampamenti. La scorsa settimana sembra che otto militari italiani, appartenenti alle forze di pace, siano entrati in un negozio di questa cittadina, e con un’azione congiunta, dividendosi in tre gruppi, abbiano derubato il negoziante di 300$ di merce, perlopiù attrezzature militari. Il primo gruppo distraeva il negoziante, il secondo cercava di focalizzarne l’attenzione, mentre il terzo agiva nelle retrovie facendo manbassa. Tecniche apprese nella guerra al terrorismo in Afghanistan o in Iraq. Il negoziante se ne accorge. Arriva la polizia libanese. Investigazione. Un caso isolato. Si dice che ogni soldato guadagni 3000$ al mese per partecipare alla missione di pace. Annoiati.

Intervallo. Beirut. Notte inoltrata. Forze internazionali d’interposizione. Francesi. La scorsa settimana, tre giovani imberbi mi si avvicinano in mezzo alla strada. Spaesati dalle strade deserte mi chiedono, in perfetto inglese, se parlo francese. Ok, è inevitabile, sono francesi. Mi chiedono se conosco un “sex-bar” nella zona. Mmm. Uno in particolare o uno qualunque? Uno qualunque. Seguite quella strada ragazzi, in fondo a sinistra, e poi a destra avanti duecento metri. Ecco lì ci sono i più squallidi super night club della città. Mi salutano “militarmente”. Ok. La domanda sarà cresciuta dopo l’arrivo delle forze di pace. Il business della prostituzione sarà alle stelle. Russia, Europa dell’Est, Africa. Me le immagino all’aeroporto, come al solito, aspettando il visto in fila ad uno sportello apposito. Venti, trenta alla volta. Normalmente arrivano per la stagione estiva, per “soddisfare” i sauditi in vacanza libertina in Libano. Stagione invernale. Peacekeepers. Afghanistan, Iraq, Kosovo, pace e amore per tutti.

mercoledì 25 ottobre 2006

Noi, Loro ed il Ramadan

“Un uomo entra nella moschea di Kabul per la preghiera di Eid el-Fitr”. “Moltitudinaria preghiera dei pescatori indonesiani nel porto di Giakarta”. Le didascalie delle foto che appaiono nei nostri giornali, dando notizia della fine del Ramadan nel mondo, si attengono strettamente al campo religioso. Certo è una festa religiosa, così come il Natale. Il più delle volte però del nostro Natale non si mostrano le processioni religiose o la messa di mezzanotte, ma le corse frenetiche per gli ultimi acquisti, i preparativi per il cenone natalizio ed il cittadino frustrato che non trova più il cappone. Il Ramadan non è fatto di sole preghiere, raduni moltitudinari e moschee. È fatto anche di feste in famiglia, ricchi banchetti e regali per i più piccoli.

In una città come Beirut, definita dai più come un ponte tra Occidente ed Oriente, il Ramadan ricorda in certe forme il Natale, soprattutto le sue forme più consumistiche. Ugualmente, a Dubai, l’anno passato fu indetta una lotteria per l’occasione. Premio: una splendida Maserati (ricorda la pubblicità di un panettone?). Le famiglie, nei due giorni di Eid (la festa post-Ramadan), scendono per strada con i vestiti migliori e passeggiano fra negozi facendo incetta di leccornie di ogni tipo. Accanto ai menù offerta-speciale-Ramadan ampiamente pubblicizzati dai ristoranti, ci sono anche, nei giorni di festa, i centri commerciali aperti a flussi di gente vogliosa di spendere dopo un mese di digiuno e sacrifici. Il Ramadan è sacrificio e costanza, e ricorda un pò il digiuno dalla carne nel periodo di Quaresima. Ognuno lo vive a modo suo. Nabil, per esempio, nonostante sia arabo musulmano sunnita ed anche palestinese, non ha mai fatto in vita sua il digiuno del Ramadan.

Ugualmente ogni sera di questo mese è andato, al calar del sole, a preparare l’iftar (la cena dopo il digiuno giornaliero) per la famiglia, ed ha cenato con loro tutti i giorni. Samir, ha qualche chilo di troppo e fuma come un matto. Due pacchetti di sigarette al giorno. Non va mai alla moschea, nè il venerdi nè gli altri giorni, ma digiuna durante il Ramadan. Ha perso cinque chili in questo mese, non ha parlato tanto ossessivamente di donne, ed è riuscito a non fumare, non bere e non mangiare dall’alba al tramonto. Leila è musulmana, sunnita, non porta il velo, veste all’ultima moda (anche in modo appariscente), guida una Mercedes ultimo modello, ed ha digiunato per tutto il mese. Sembra che non gli sia stato imposto da nessun capo religioso, ma è meglio indagare. Il Ramadan non è unicamente una ricorrenza religiosa ma le sue molteplici facce rimangono assenti dai nostri stereotipi.

C’è una foto, fra quelle che riempiono i nostri giornali, che potrebbe uscire da questa logica. “Corteo a dorso di cammello per le strade di Ryiad”. Associazione mentale rapida: cammello, deserto, arabo, sceicco, petrolio, bombe e terroristi fanatici velati contro volontà. Sì, è funzionale al nostro ego ed alla nostra identità. Noi siamo troppo diversi. Così crediamo...

sabato 23 settembre 2006

La “vittoria divina, storica e strategica”

Il tempo scorre, sono quasi le cinque, l’ora in cui secondo indiscrezioni farà la sua apparizione Hassan Nasrallah, ma migliaia di persone ancora stanno cercando di entrare nel recinto allestito da Hezbollah per celebrare la “vittoria” contro Israele. Proporzionalmente al passare dei minuti e l’approssimarsi dell’ora stabilita, si alzano gli occhi verso un cielo già cosparso di palloncini con i colori del Libano. Gli occhi e gli indici verso l’alto si moltiplicano sempre di più alla ricerca di quel possibile attacco aereo il cui rischio è stato preventivato dai manifestanti accorsi in questo venerdì di fine settembre alle porte del Ramadan. Ma di aerei israeliani neanche l’ombra, nonostante siano moltissimi quelli che si sbracciano indicandone continuamente la presenza. In effetti, la tensione, dovuta alla possibile rappresaglia israeliana, è palpabile nell’aria. Ma si sente anche la voglia di veder ricomparire in pubblico il proprio leader, sfidando un’altra volta Israele e facendo così da suggello ad una vittoria ancora più dolce. Tutti infatti sanno, fin dalle prime ore del mattino, che Hassan Nasrallah apparirà sicuramente in pubblico, la gente non dubita minimamente e non accetterebbe un semplice messaggio registrato. I dubbi sulla sua presenza nei giorni precedenti la manifestazione sono ormai ricordo di chiacchiere da bar.

E così si è presentato, in un’arena che ha accolto centinaia di migliaia di persone, con variazioni di colori dal giallo di Hezbollah, al verde di Amal, alla sparuta presenza arancione del generale Aoun, e da piccole chiazze di nero e rosso, del Partito Sociale Nazionale Siriano e di quello comunista. Curiosamente anche qualche multicolore bandiera venezuelana, dopo che nei giorni scorsi erano apparsi alcuni manifesti inneggianti a Hugo Chavez, per il suo supporto alla resistenza libanese. Per il resto, non molte bandiere libanesi. Sembra che la festa sia della propria resistenza di Hezbollah, e che se la voglia tener ben stretta. La resistenza contro Israele è stata di Hezbollah, ed è questo quello che si celebrava oggi. Di Hezbollah e di quelle persone che gli hanno dato appoggio politico e morale. Un bagno d’euforia quindi, che è stato controllato da un ingente servizio d’ordine interno, con innumerevoli posti di controllo prima di accedere al recinto. Le migliaia di sedie di plastica preparate i giorni precedenti servono solo per il prologo, con l’arrivo del leader di Hezbollah la folla è in piedi ed al massimo le usa come mezzo per meglio vedere il proprio indiscutibile idolo.

È stata una festa, una festa per i suburbi di Beirut soprattutto, quelli che insieme al sud del paese hanno più sofferto i bombardamenti estivi. La festa si è estesa per tutto il sud della capitale libanese, riempiendola di bandiere, clacson, canzoni militanti e musica assordante, ma svuotando le altre zone della città che presentavano l’aspetto di una spettrale domenica estiva beirutina.

Nasrallah è stato duro, Hezbollah non si disarma nelle condizioni in cui si trova attualmente lo stato libanese, nessuno li può disarmare. Nonostante nei giorni precedenti l’opinione pubblica ipotizzasse che il discorso di Nasrallah avrebbe delineato una possibile “road map” libanese, c’era da aspettarselo che il discorso avrebbe preso una direzione dura, robusta e arcigna.

La coreografia dell’arena è guerresca. Non ci sono questa volta le immagini dei palazzi distrutti, dei bambini ammazzati dalle bombe, o dei funerali dei martiri, che erano quotidiano scenario visivo nel dopo guerra. Oggi si celebra una vittoria e le immagini che si presentano sono quelle dei soldati israeliani morti in un attacco o delle azioni più prestigiose. Nello sfondo del palco campeggiano quattro gigantografie che dichiarano che con il fuoco è stato difesa rispettivamente “la nostra terra, il nostro cielo e la nostra acqua. Fuoco, terra, cielo ed acqua. Ellenicamente, gli elementi rappresentano tre scene di guerra, con il fuoco, in primis, simbolizzato da una batteria di katiuscia pronta al lancio.

La festa della vittoria divina, e qualsiasi manifestazione di piazza negli ultimi tempi, si trasforma regolarmente in un implicito foglio di via per il governo di Fuad Siniora, in nome di un nuovo governo d’unità nazionale. Da una parte i manifestanti, cantando cori contro il premier, anche se zittiti spesso dalla sicurezza interna del partito sciita, che viene invitato letteralmente ad andarsene. Dall’altra parte il discorso di Hassan Nasrallah, che non ha evitato di pizzicare le lacrime di Siniora durante la guerra, già frutto di critica da parte di Israele, e che quindi ormai hanno ricevuto le attenzioni di entrambi i contendenti del conflitto di agosto. Contorno sonoro di tutto il discorso, gli ululati da parte del pubblico alla pronuncia del nome di Condoleza Rice.

Questa è stata l’atmosfera della festa per la vittoria divina, storica e strategica. Il problema è che non tutti condividono in Libano il fatto che si dovesse celebrare una vittoria, e sono molti quelli che vedono nella guerra d’agosto una chiara sconfitta dello stato libanese, e del suo “arretramento” di quindici anni.

Già si dice che le Forze Libanesi stiano preparando un evento simile questa stessa domenica a Harissa, per controbattere alle centinaia di migliaia di persone accorse alla festa della vittoria divina. Lo stesso successe l’otto ed il quattordici marzo del 2005 nello scenario della cosiddetta “rivoluzione dei cedri”. Quelle due manifestazioni sancirono chiaramente la divisione del Libano in due blocchi, e la nascita del nuovo ordine post-Hariri. Cosa provocherà questa nuova “battaglia” a suon di manifestanti, lo scopriremo presto.

mercoledì 6 settembre 2006

Ciak. Sbarco forza d’interposizione italiana. Libano. Buona la prima.

Seduti sul sofà di casa con la televisione accesa, le immagini che ci vengono proposte sono quasi epiche. Uomini in nero, “lagunari” armati di tutto punto, gommoni che sfrecciano fra le onde di un Libano che in Occidente è sempre sinonimo di guerra, caos e terrorismo. Ma è anche curioso vedere il contorno di un evento mediatico internazionale come quello dello sbarco italiano sulle coste del Libano. Lo sbarco è qualcosa di forte e simbolico allo stesso tempo. L’attuale stampa mondiale e le truppe italiane del contingente ONU in Libano, lo sanno benissimo. Uno sbarco cattura l’attenzione del pubblico televisivo, più d’ogni altra cosa. Peccato che la realtà quotidiana sia differente. L’approdo italiano è stato accolto con indifferenza dalla popolazione di Tiro, che ha preferito ripararsi dal caldo gettandosi nell’acqua cristallina delle spiagge libere, ed ignorando quasi totalmente gli elicotteri che scorrazzavano sulle loro teste. Sì, perchè lo sbarco è programmato alla Rest House, un noto e privato club balneare della città del sud del Libano. Molti dei giornalisti internazionali è qui che alloggiano, ed è da questi piccoli chalet con entrata sulla spiaggia che hanno seguito tutte le fasi della guerra estiva del 2006. Confortante. Il campo base per una volta è diventato il punto di trasmissione. Non c’è bisogno di spostarsi con automobili dotate di cubitale scritta TV sul parabrezza. Basta stropicciarsi gli occhi, lavarsi la faccia ed in cinque minuti ecco che i primi italiani impavidi approdano al resort. Stato d’allerta. Con fare nervoso e facce irrigidite, i “nostri” soldati si allineano conquistando i gazebo di paglia, che spartiranno poi coi giornalisti. Sole d’agosto. Spiaggia bianca. Con le telecamere accese non si possono dare segni di cedimento. Allerta. Ci possono attaccare. Dubito. C’è anche una delle quattro soldatesse della spedizione. All’arrembaggio. Flash. Una donna fra cento uomini fa misoginamente notizia. Fa un certo effetto vedere che ci sono sicuramente più giornalisti che soldati italiani gonfi di timore ed adrenalina. Un connubio interessante. Fra stampa e televisione c’è n’è per tutti i gusti. Dall’inviato mainstream, che spera in un possibile allargamento della guerra, magari all’Iran, per continuare a lavorare nell’area ( deformazione professionale), ad improvvisati free lance da turismo di guerra con Lonely Planet alla mano e poche idee di cosa sia il Libano. Questo è in linea di massima ( chiaramente c’è una buona minoranza di bravissimi giornalisti) quello su cui dobbiamo riflettere quando guardiamo le notizie da casa. Intanto, sfortunatamente, lo sbarco si è dovuto spostare in una spiaggia vicina, per colpa di quello che è stato definito “mare mosso”. Pigra delusione. Muoversi. Bene. Speriamo che i “nostri” non debbano mai compiere un serio sbarco di guerra. Meglio lo sbarco reality.

mercoledì 30 agosto 2006

Beirut, si ricomincia dalla distruzione

Un mese e mezzo di guerra è appena terminato, ma lo spirito gioviale ed affarista che contraddistingue i libanesi non si è piegato alla logica della guerra e della distruzione, e già sta provando a risollevarsi. Così che, in questi giorni, per le strade della capitale, si possono incontrare alcuni manifesti pubblicitari sicuramente curiosi. Una nota marca internazionale di whisky, che ha come logo un omino stilizzato che cammina in paesaggi urbani altrettanto stilizzati, sta proponendo una serie di cartelloni con il solito omino camminando su un ponte. La differenza è che il ponte questa volta è stato disegnato senza un pezzo, come distrutto da un bombardamento. Il logo della marca, Keep walking, sembra ormai emblematico della personalità libanese. La macchina dell’advertisment post-guerra non si è fermata neanche di fronte al peggior nemico. Le pubblicità di diversi istituti di credito, giocano molto sulle parole distruzione-costruzione e fanno leva sui bisogni popolari, sfoggiando indicatori del serbatoio di benzina su empty, ed offrendo, a chi apre un nuovo conto corrente, la possibilità di vincere un buono acquisto da 1000$ di preziosa gasolina. I libanesi decisamente non finiscono mai di sorprenderci. Questa è una delle facce del dopoguerra, l’altra, nel suo contrasto, è quella della propaganda allestita da Hezbollah, nei quartieri del sud della capitale e nella strada che dal centro va verso l’aeroporto. Poster giganteschi che inneggiano alla Divine Victory, e che con certa ironia si prendono gioco della potenza americana, con scritte come This is your Democracy, di fronte ad un edificio raso al suolo, o Extremely accurate target, sullo stesso sfondo di distruzione.

Da una parte quindi l’affarismo neofenicio libanese, e dall’altra, la rivincita popolare antiamericana e la resistenza contro l’invasore israeliano. Contraddizioni? Forse, ma anche semplicemente due facce di una stessa medaglia, di uno stesso Stato, che non necessariamente si scontrano, ma che anzi spesso riescono a complementarsi armonicamente.
La strada è sintomatica di come si stia vivendo la conclusione del conflitto. Da un lato la ricostruzione e l’assenza di benzina, dovuto all’ancora vigente blocco selvaggio israeliano. Dall’altra, la grande influenza e popolarità che ha guadagnato Hezbollah, e soprattutto il suo leader Hassan Nasrallah.

La ricostruzione in Libano è un business che nessuno può permettersi di lasciarsi sfuggire. Un business che è direttamente proporzionale all’accrescimento di consenso popolare. Alla proposta di Nasrallah, di offrire 12000$ ad ogni famiglia senza casa, hanno risposto soprattutto i leader comunitari, singoli individui e businessman con particolari interessi, che si stanno spartendo specialmente la ricostruzione dei ponti distrutti. I ponti, infatti, sono fra le infrastrutture che più hanno patito l’attacco israeliano. La strada che da Beirut lungo la costa conduce fino a Naqura, al confine sud con Israele, è stata letteralmente privata di tutti i suoi collegamenti fra il mare e la montagna. Con una precisione millimetrica sono stati bombardati sistematicamente uno per uno tutti i ponti, per evitare che “i soldati israeliani rapiti fossero portati via”, o più chiaramente per mettere in ginocchio le infrastrutture libanesi e “rimandare il Libano indietro di venti anni”, come dichiarò un membro del governo israeliano all’inizio delle ostilità.

La benzina è l’altro problema principale. A parte il fatto che il prezzo è cresciuto enormemente, si assiste quotidianamente a code d’automobili in attesa alle poche stazioni di servizio aperte. Nel sud, ed a Baalbeck, invece, le stazioni di servizio sono state minuziosamente bombardate. Il costo del servis, il taxi collettivo della capitale, è salito da 1000 a 1500 lire, ed a parte i numerosi battibecchi a cui si assiste in questi giorni, ogni conducente si prodiga nello spiegare quanti problemi abbiano col rifornimento.

Da un lato quindi, questa è la vita quotidiana della gente che è stata colpita dalla guerra di forma indiretta. Dall’altra parte c’è il raccapricciante spettacolo che offrono i suburbi di Beirut ed i villaggi del sud del paese. Mentre nei suburbi ad essere stati rasi al suolo sono interi quartieri con palazzi di 10-15 piani, nel sud del paese, l’unità di misura è quella del villaggio, della cittadina. Qui le case sono crivellate dai colpi o sventrate per metà, lasciando ancora intatto a volte il mobilio precedente. La cittadina di Bint Jbeil, nel profondo sud, a cinque km dal confine, è poco più che un ammasso di macerie. Niente si è salvato di un paese che lascia i segni visibili di una battaglia campale, e che sicuramente sarà ricostruita in un’altra posizione.

Provate ad immaginare di attraversare un paese di 15000 abitanti ed incontrare alla vostra destra ed alla vostra sinistra solo macerie di case, rottami d’auto accartocciati, pali della luce inarcati sulla strada; poi decidete di entrare nella parte vecchia della città, constatando come le bombe abbiano bussato rispettosamente a tutte le porte, e si possano intravedere fra le macerie scarpe, vestiti, giornali e ventilatori penzolanti da luoghi improbabili.

Le tracce dell’esercito israeliano, ancora presente in alcune zone del sud, si palesa quando s’incontrano le “nuove” strade spianate dai carri-armati israeliani, i famosi merkava, i resti degli approvvigionamenti dell’esercito con la stella di David ed un dirigibile che sorvola e controlla il confine. Il contrasto tra questa regione del Libano completamente distrutta e lo splendido paesaggio che offre alla vista, fatto di piantagioni di banane sulla costa e coltivazioni di tabacco al suo interno, è spaventoso. Molte delle case distrutte ancora hanno in bella vista le foglie di tabacco lasciate ad essiccare, un prodotto di lavorazione popolare, e simbolo di come la distruzione e la contaminazione provocata dalle bombe sganciate abbiano mandato in rovina il lavoro passato e futuro di una parte della popolazione più povera del Libano.

Intere famiglie intanto tornano verso le loro case, nel sud e nei quartieri meridionali di Beirut. Con gran coraggio lo hanno fatto già mezz’ora dopo l’inizio del cessate il fuoco. Cercano fra le rovine quello che è possibile salvare della propria casa, discutono con gli agenti di sicurezza perchè non gli è permesso di andare in zone ancora non bonificate dalle bombe inesplose, ma soprattutto, e di fronte ad uno spettacolo che non può non lasciarti inerme, ricominciano a riparare il riparabile.

La guerra ha portato distruzione, l’intento di sradicare la popolazione sciita, ed il tentativo di mettere in ginocchio l’economia libanese, forte concorrente d’Israele nell’area mediorientale. Inutile evidenziare che la più grande fabbrica di latte del Libano, ridotta in macerie dai bombardamenti israeliani in una zona isolata del paese, non sia certo parte della “infrastruttura del terrore” di Hezbollah, che Israele proclamava di distruggere. Inutile evocare l’imprecisione nei bombardamenti, quando s’incrociano carcasse d’automobili colpite chirurgicamente, con tutte le sue persone a bordo, probabilmente in direzione nord. Famiglie che scappavano dalla guerra, difficilmente membri di Hezbollah.

I libanesi provano ad alzare la testa, ma sono furibondi con le nazioni che hanno nei primi giorni permesso che questa guerra proseguisse. Allo stesso tempo però, nei confronti di noi asgnabi, stranieri, sono incredibilmente più gentili e socievoli. Ancora si crede in qualcuno. In primis D’Alema, poi segue Chavez, il presidente venezuelano. Il nome di Massimo D’Alema è ormai sulla bocca di tutti, i suoi baffetti provocano simpatici ghigni fra i libanesi, e sta raggiungendo apici di popolarità che solo Nasrallah e Che Guevara possono sovrastare. Speriamo bene

giovedì 24 agosto 2006

Il Janub, ovvero il sud del Libano e della sua capitale

Reportage nel “meridione” del paese dei cedri durante la prima settimana di tregua.

Il villaggio di Debel si trova a cinque km di distanza dal confine con Israele, ed è stretto nella morsa di Aita el Chaab e Bint Jbeil, i paesi dove forse più si è sofferto la guerra e che maggiormente sono stati bombardati dall’artiglieria israeliana e dal fuoco di Hezbollah. Debel è un villaggio a stragrande maggioranza cristiano-maronita, e lo si può notare dai poster del leader delle forze libanesi Samir Geagea appesi ad ogni angolo e dalle rappresentazioni sacre ai cigli delle strade. Un’altra caratteristica della città, rispetto alle circostanti, è la presenza su numerose case di sventolanti e grandi bandiere bianche. La città è in gran parte intatta, sembra solo svuotata dei suoi impauriti abitanti, ma è strano incontrarsi un villaggio in queste condizioni ad appena cinque minuti di distanza da Bint Jbeil.

Bint jbeil è concretamente inesistente. I segni di una battaglia campale sono evidenti, o come piace definirlo ai media, di una chiara lotta “casa per casa”, così come degli effetti dei bombardamenti dall’alto. La parte antica di questa cittadina di ventimila anime è stata rasa al suolo e gli edifici ancora in piedi e non ridotti in calcinacci, sono sventrati almeno per metà. Televisioni penzolanti, pali della luce inarcati sulle strade, macchine parcheggiate di cui restano solo le sagome e scorci di mobilio in case all’aria aperta, sono il panorama più ricorrente. Tra i vicoli della città camminano, oltre a pochi disperati abitanti della città che constatano le condizioni delle loro case, quasi unicamente persone con blocco alla mano e bomboletta spray. Segnano le case distrutte con cifre in spray rosso e scrivono alcune note sul blocco che hanno nelle mani. Sono probabilmente membri di Hezbollah che si sono messi velocemente al lavoro per contare i danni ed identificare le famiglie che riceveranno il sussidio annuale promesso da Hassan Nasrallah. Non sarà possibile ricostruire Bint Jbeil, considerati i danni sofferti, ma quasi certamente “risorgerà” in un’altra posizione.

A differenza di Bint Jbeil, Aita el Chaab presenta più quella tipologia già sperimentata dall’esercito israeliano in Gaza e Cisgiordania. Qui sono entrate in scena le ruspe israeliane ed in buona parte hanno livellato il villaggio. La peculiarità di Aita el Chaab sta nel fatto che si possono incontrare, per la gioia della propaganda di Hezbollah, alcuni resti dei mezzi militari israeliani. Carcasse che già sono diventato simbolo, e che già sono sovrastate da bandiere di Hezbollah e del Libano. L’esercito israeliano, come affermano alcuni testimoni oculari, ha accuratamente raccolto tutti i resti che avrebbero potuto denotarne una sconfitta o forti perdite; una minuziosità che non ebbero durante il ritiro dal Libano nel 2000, quando lasciarono numerosi mezzi militari sul campo, ed in seguito furono trasformati in “monumenti” della liberazione da Hezbollah.

I soldati israeliani non si vedono, e l’unica presenza visibile è quella di un dirigibile bianco che staziona sospeso in aria nei pressi della frontiera a Nord di Bint Jbeil. Della presenza dei soldati israeliani rimangono solo i resti delle bottiglie d’acque consumate durante il caldo infernale dell’offensiva d’agosto (rigorosamente di marca israeliana) e le nuove “strade” di terra battuta spianate dagli ormai sfortunatamente famosi merkava, che scendono dai crinali montagnosi e si perdono oltre il confine. L’esercito libanese sta lentamente “occupando” alcuni edifici pubblici nel sud per farne nuovi quartieri generali, ma ancora è lontano dal confine con Israele, e nelle città più martoriate non se ne intravede alcuna traccia. Per quanto riguarda le forze d’interposizione dell’Unifil, anche in questo caso, solo alcuni sparuti carri-armati in pochi villaggi.

Questo è in linea di massima lo scenario dei villaggi del sud del Libano nella strada che da Cana porta e Bint Jbeil e da qui scende, parallelamente al confine, fra piantagioni di banani ed ulivi, fin verso Naqura. Le eccezioni sono date da qualche villaggio cristiano (molti sono stati ugualmente vittime dei bombardamenti) e da alcune sfarzose case principesche, probabilmente di ricchi emigranti sciiti che hanno fatto fortuna in Africa. Tutto questo è sintomatico e aiuta a chiarire gli obiettivi della guerra delle scorse settimane. Il concetto colonialistico del divide et impera sembra che sia stato riproposto ed utilizzato questa volta con la variante della distruzione. Divisione e distruzione sembra che siano state le variabili utilizzate durante quest’estiva offensiva israeliana in Libano. Da un lato, “bombardando” la popolazione con volantini propagandistici (e sms alla telefonia mobile) inneggianti al sollevamento contro Nasrallah, e dall’altra, colpendo un’intera popolazione nelle sue infrastrutture più basiche.

Si sono colpite le cosiddette roccaforti di Hezbollah per debilitarne soprattutto il sostegno della sua popolazione meno abbiente, forse quella che più materialmente contribuisce con uomini alla “resistenza” del partito sciita. La stessa tecnica è stata utilizzata a Dahia, nell’agglomerato urbano del sud della capitale libanese, feudo sciita per eccellenza e rinomata sacca di povertà. Qui è stata rasa al suolo la supposta residenza di Hassan Nasrallah e l’edificio della televisione Al-Manar, che simbolicamente continua a trasmettere tra le macerie. Per entrare nell’area di Dahia, è necessario un lasciapassare rilasciato da un banchetto ad ogni entrata dell’area di sicurezza con rappresentanti di Hezbollah che controllano i documenti. La presenza del Partito di Dio è constatabile, anche se è possibile intravedere ben pochi miliziani armati, ma piuttosto coloro che più chiaramente fanno parte del servizio di sicurezza e non sono certo guerriglieri. A Dahia, così come nel Sud è molto difficile identificare elementi di Hezbollah. La presenza di Hezbollah è data invece dai cartelli propagandistici a sfondo giallo fosforescente che campeggiano nelle strade dei villaggi e nei suburbi. I messaggi sono di una forte ed ironica drammaticità in stile “The great middle beast”,“This is your democracy” ed ”Extremely accurate target” di fronte a casa rase al suolo, e con nel contorno alcune invettive contro Condolezza Rice. A livello propagandistico, la strada che da Beirut porta all’aeroporto è quella probabilmente più suggestiva. I cartelloni, normalmente pubblicitari, sono stati sostituiti da quelli della Divine Victory, che alterna immagini di guerriglieri in marcia al tramonto, vecchi in lacrime con macerie sullo sfondo, bambini feriti e batterie di razzi katiuscia pronti al lancio.

Il janub, il sud, in tutte le sue forme e connotazioni, è l’elemento che simbolicamente si è voluto colpire con questa guerra. Un janub che in Libano, e nella sua capitale, è pressoché sinonimo di comunità sciita. Il nord di Beirut ha ricevuto solo simbolici e dettagliati bombardamenti. Entrambi i fari della capitale sono stati minuziosamente colpiti con una precisione accurata. Così è stato anche per il nord del Libano, colpito principalmente nelle zone a ridosso della frontiera siriana ed in alcune infrastrutture di viabilità. Sono proprio queste infrastrutture che sono state rase al suolo completamente nel sud del Libano ed in minima parte nel nord, allo scopo di raggiungere il funzionale obiettivo di dividere la popolazione libanese al suo interno. La strada che dai sobborghi di Beirut porta fino a Sour è stata spogliata di tutti i ponti che la collegano alla montagna. Ogni singolo ponte (forse una o due eccezioni per un totale di una trentina di ponti) è stato bersagliato millimetricamente e reso inagibile, così com’è successo con tutte le stazioni di rifornimento. I due bersagli strategici principali. Ma quello che più rabbrividisce, è la presenza delle carcasse di automobili ai lati della strada, senza alcun segno di distruzione circostante. Quasi tutte con il muso diretto verso Beirut, verso un nord sicuro, ed emblematico della precisione dell’aviazione israeliana nel bombardamento di civili in fuga o di improbabili “terroristi”. E’ difficile, guardando i rottami di queste vetture, pensare all’errore umano. Sfortunatamente non sono i civili in fuga, le stazioni di servizio ed i ponti, le infrastrutture utilizzate dal “terrore” di Hezbollah, ma elementi essenziali per il sostentamento di tutti i cittadini, com’è stato sottolineato nell’ultimo rapporto di Amnesty International. La propaganda israeliana a livello di mainstream mondiale ha sempre indicato la distruzione di obiettivi strategici e funzionali all’annientamento di Hezbollah. Sono le varie industrie del latte, della plastica e farmaceutiche, dislocate in varie zone del paese, e bombardate dal cielo, parte essenziale dell’infrastruttura del “terrore”? Il tentativo di debilitare profondamente la concorrente economia libanese è stato uno degli altri “effetti collaterali” di questo mese di campagne via terra e raid aerei. L’offensiva in Libano è stata una guerra che ha avuto come obiettivo quello di annichilare Hezbollah, ma che si è avvalsa del tentativo di rompere il fragile equilibrio libanese, utilizzando morti, e disagi per tutta la nazione, come mezzo per raggiungerlo. Insieme con il tentativo di smantellamento della maggioranza della popolazione sciita si è cercato di provocare un intero paese, e la sua popolazione, alla rivolta interna e quindi renderlo innocuo verso l’esterno. Lo Stato libanese, in mezzo a tutto questo, è rimasto assente, stretto nella morsa degli amici americani e dei nemici siriani, e continua ad esserlo anche nel dopoguerra. Il risultato è chiaro sul tavolo. Hezbollah si è rafforzato enormemente, ha acquisito ancora maggiore credibilità, sia su scala regionale che nazionale, ed è diventato ormai sinonimo di struttura “semi-statale”. Dall’altra parte, lo Stato libanese, o meglio, le forze che già in precedenza si trovavano in opposizione ad Hezbollah, nonostante l’ottimo diplomatico atteggiamento utilizzato durante la guerra, si stanno leccando le ferite cercando di riacquistare sovranità. Mentre ognuno canta la propria vittoria, mentre tutti aspettano il secondo round della guerra, e l’arrivo di un’ipotetica forza multinazionale con la bacchetta magica della pace, il Libano intero, in bilico tra stabilità e precipizio, è in ginocchio e fatica a risollevarsi.

mercoledì 23 agosto 2006

Italy, je t’aime tantissimo!!!

Domenica scorsa, passeggiando tra le rovine dei suburbi di Beirut, Hassan, un amico libanese, mi ha fatto notare la presenza di un parlamentare di Hezbollah tra le macerie degli edifici bombardati. Guardandolo bene, ho riconosciuto il volto di Hussein Haji Hassan. Ridacchiando, mi sono ricordato di quel “braccetto” birichino col ministro D’Alema, che tanto scalpore creò nell’opinione pubblica italiana. Così, ho provato a spiegare ad Hassan perchè quella foto provocò tanto scandalo e di come in Italia la critica alla politica dello stato ebraico spesso venga tramutata in un semplicistico e nocivo antisemitismo. Nel suo semplice e naturale stupore mi ha risposto che il parlamentare ha visitato tutti i giorni le zone bombardate. “E’ a contatto con la gente che soffre, è una buona persona, anche gli italiani sono buona gente. Quindi, cosa c’è di male?”. Non c’è dubbio che l’Italia abbia una buona reputazione in Libano, a volte è anche eccessivamente ed incomprensibilmente amata. La conoscenza di nuove persone in Libano comporta regolarmente l’affermazione “eh, si sa, italiani e libanesi si assomigliano proprio!”. Ormai sovrastato, annuisco e basta. Le marche italiane non hanno rivali e gli scaffali dei supermarket sono stracolmi di made in Italy. Perchè tutto questo “amore”? I più dicono che nel 1982, durante la guerra civile, la forza d’interposizione italiana si sia comportata egregiamente, abbia aiutato la popolazione locale e stretto sinceri legami con la gente. Ecco, di nuovo il contatto con le persone. Un valore che da queste parti significa molto, soprattutto se entri in un paese straniero con la divisa militare e le armi in pugno.

I libanesi hanno fiducia nell’Italia, e si sa che la fiducia è il primo passo per ogni buona relazione. In politica internazionale nessuno però fa niente per niente. L’Italia si vuole impegnare a fondo nel Libano, soprattutto per salvaguardare un partner economico fondamentale, ma anche per riacquistare spessore nell’area mediterranea. Il governo italiano sa perfettamente che si sta ingaggiando in una forza di pace che non ha l’obiettivo di disarmare Hezbollah. Allo stesso tempo sa che il “Partito di Dio” è un gruppo disciplinato, e non un gruppo terrorista composto da schegge impazzite, ma da membri fedeli alle direttive dei propri leader. Se gli italiani del contingente scenderanno in Libano carichi d’umanità e con fucili scarichi, e se nessuno si lancerà in destabilizzanti provocazioni, la forza di pace sarà trampolino di lancio per lo stato italiano nella regione. Forse, in un futuro prossimo, in quello slang libanese ora farcito di francese, inglese ed arabo, si potranno così incontrare anche espressioni come yalla ciao, Buongiorno, ca va? o Inchallah domani.

mercoledì 2 agosto 2006

Sciiti, palestinesi, coincidenze e cicli storici.

Una delle principali conseguenze della guerra che oppose arabi ed israeliani nel 1948, fu la creazione della diaspora palestinese. Interi villaggi palestinesi furono rasi al suolo ed i suoi abitanti costretti a fuggire. Sparsi ai quattro cantoni del Medio Oriente, centinaia di migliaia di palestinesi, e le successive generazioni, vivono tuttora in campi rifugiati, spesso senza possibilità di lavorare perchè non dotati di cittadinanza, nell’attesa di poter tornare a casa. In questi paesi sono involontaria fonte di destabilizzazione per i governi ospitanti.

Per questo a Damasco, dove, dopo i bombardamenti israeliani del Libano, i cittadini libanesi qui accolti sono quasi 200.000, il termine “rifugiati” è mamnu’a (proibito in arabo), bisogna chiamarli “evacuati”. La disputa terminologica si deve al fatto che il governo siriano li considera “ospiti” momentanei del paese, e non vuole che la storia si ripeta come con i palestinesi. Ma a volte la storia si ripete.
La maggioranza degli “evacuati” proviene dalle regioni meridionali libanesi e dalla valle della Beeka, vale a dire, zone a stragrande maggioranza sciita, molti dei quali sostenitori di Hezbollah. Probabilmente quindi il 70% degli evacuati, rifugiatisi in Siria, sono di confessione sciita (i palestinesi libanesi in questo caso, essendo indocumentati, non possono sfuggire alla guerra).

I numerosi villaggi cristiani del sud libanese sono stati vittime dei bombardamenti israeliani, ma evitando di “farne granelli di sabbia” come qualche generale israeliano ha accennato. Si dice che uno di questi villaggi, di 20.000 abitanti, stia accogliendo più di 50.000 rifugiati, che qui si sentono più al sicuro, nonostante si trovino nel bel mezzo della guerra. Si vuole forse colpire un’intera comunità? Coincidenze forse. Ma la storia a volte si ripete.

Durante i primi anni della guerra civile libanese, quando nel 1978 Israele entrò nel conflitto, la zona meridionale del Libano era in gran quantità abitata dalla popolazione palestinese e base della guerriglia palestinese. Lo stato ebraico entrò quindi militarmente in Libano, provocando lo spostamento della quasi totalità dei palestinesi verso i già esistenti campi profughi delle grandi città.

Israele attuò nello stesso modo nei confronti della popolazione sciita, nel 1996, e provocò le stesse conseguenze: un massacro di bambini a Cana (la stessa Cana d’oggi, la stessa delle evangeliche moltiplicazioni), distruzioni d’interi villaggi, rafforzamento morale dell’estremismo di Hezbollah e la stessa quantità di rifugiati. Quegli stessi rifugiati crearono il grosso dei cosiddetti suburbi di Beirut, ora “covo” di quell’Hezbollah supportato dall’odierno “malefico” Iran. Per coincidenza paese sciita.

Distruzione e disperazione sono sempre proporzionali a tempeste d’odio. Questa è l’insensatezza di tutte le guerre. Speriamo che le coincidenze non esistano e che la storia ciclica sia un’invenzione accademica.

martedì 25 luglio 2006

Vittime di chi?

Fadi è in Italia, a Roma. Dopo aver seguito per tre anni un corso d’italiano all’Istituto Culturale Italiano di Beirut, finalmente è riuscito ad ottenere un visto per studiare in Italia, in cerca di un futuro più dignitoso. Fadi è di un piccolo paesino del Sud del Libano, nei pressi della città di Tiro. Tre volte la settimana parte dalla sua casa con un servis (taxi collettivo libanese) con direzione Tiro, la città più popolata del Sud. A Tiro quindi sale su un minibus che in poco più di un’ora lo porta a Beirut. Finita la lezione lo stesso tramite. Fadi chiaramente non può permettersi di affittare una stanza a Beirut, troppo cara la capitale libanese. L’ambasciata italiana, per rilasciare un visto di studio ad uno studente libanese, l’anno scorso, ha drasticamente alzato il prezzo della caparra che ogni studente deve versare, per partire, in un conto corrente di una nota banca italiana. Mentre gli anni precedenti la caparra si aggirava sui 2000$, un prezzo già proibitivo per famiglie numerose del sud del paese, l’anno scorso, è stato alzato a 5000$, giusto un mese prima della scadenza delle iscrizioni nelle Università italiane. Come trovare tanti soldi in così poco tempo? Come trovare 5000$ quando una famiglia del sud del Libano può vivere con in media 10.000 delle nostre vecchie lire al giorno? Eppure Fadi ce l’ha fatta, è riuscito a trovare i soldi, lavorando, chiedendoli in prestito,...ed ora è in Italia. Da dieci giorni non ha più notizie delle sue due sorelle che vivevano a Bint Jbeil, nel sud libanese, a ridosso della frontiera con Israele. Il paese è sotto continuo bombardamento da quindici giorni, è stato svuotato completamente, nelle sue strade si affrontano le forze speciali israeliane e la guerriglia di Hezbollah, tra cadaveri di civili che nessuno raccoglie (sfortunatamente mi piacerebbe che fosse solo una frase giornalistica ad effetto), dovuto al fatto che “non è il momento per un cessate il fuoco”. Fadi non riesce a contattare nessuno che possa dargli notizie delle sue sorelle. La maggior parte della popolazione del sud si sta spostando verso la capitale nei centri d’accoglienza che si stanno allestendo per rifugiati. La Croce Rossa parla di più di 700.000 rifugiati, non male per uno stato di massimo 4 milioni d’abitanti. Mettetevi nei panni di Fadi per un secondo. Di fronte a quello che propongono i media italiani probabilmente chiunque si farebbe sopraffarre dal pessimismo. I centri culturali stranieri di Beirut sono pieni di ragazzi speranzosi come Fadi. Fadi non è né cristiano né musulmano. Fadi non esiste materialmente. Ci sono decine di migliaia di Fadi nel mondo. Ci sono centinaia di Fadi anche nel nostro Belpaese. Pensate comunque a tutti loro per un attimo. Tutte vittime dell’ennesima guerra. Guardiamo le vittime ora, poi penseremo ai colpevoli. E’ abbastanza.

domenica 16 luglio 2006

Luci spente su Beirut

Il faro di Beirut è situato in una zona molto popolare, nel quartiere di Manara, sulla Corniche, il lungomare cittadino. Nei pressi del faro c’è un popolare ristorante bagnato dagli spruzzi del Mediterraneo, e c’è il rischio di inciampare in accaniti pescatori locali. Ogni giorno al calar del sole si riuniscono sulla Corniche una promenade di beirutini, chi per passeggiare, chi per prendere un caffé, famiglie intere con narghilé e cibo fatto in casa. Portano sedie da casa, certi stendono tappeti, ed occupano tutto il lungomare; sono soprattutto famiglie dei suburbi e del sud, che non possono permettersi di “accedere” alla fatiscente Downtown, ricostruita dalle macerie della guerra con soldi sauditi e con prezzi inaccessibili a molti.

Il faro è stato oggi bombardato impunemente dalle navi da guerra israeliane appostate al largo delle coste della capitale. Probabilmente anche il ristorante, e non sembra ci sia nessuna traccia di pescatori o famiglie di Dahiya (letteralmente “suburbio” in arabo), quelle stesse famiglie che ora stanno fuggendo dai bombardamenti delle loro case costruite nel post-guerra, cercando rifugio in scuole o appartamenti vuoti in zone del centro cittadino.
Era veramente importante colpire il faro cittadino, in un Libano già isolato via mare dalle navi militari israeliane? Era un obiettivo concreto o serviva solo a distruggere un simbolo della città e mettere psicologicamente in ginocchio i suoi cittadini?

Da quando è cominciata la guerra (e mi intristisce il pensiero di denominarla in questo modo) niente sembra aver senso. Bisogna allora domandarsi se ha senso questa “guerra”, quando il governo libanese non l’ha dichiarata, ed inerme subisce i bombardamenti israeliani, vittima di una complicata dinamica di forze interne e di un difficile bilanciamento confessionale-regionale, difficilmente spiegabile nell’ottica degli stati-nazione occidentali.
Non è una guerra fra Stati, anche se Israele continua a chiamare in causa Siria ed Iran; è una guerra fra gli Hezbollah, che cercano di rappresentare il malessere delle masse arabo-musulmane, e lo Stato d’Israele.
Israele sta cercando di mettere in ginocchio la totalità della cittadinanza, e cerca di chiamare in causa anche un esercito libanese che non vuole partecipare ad una guerra che non ha cominciato e che non rispecchia il sentimento della maggioranza della nazione; ma in Libano la logica occidentale di maggioranza e minoranza non funziona, funziona il consenso ed il sentimento popolare, funziona la sofferenza e la solidarietà. Per questo il governo libanese, nonostante rifiuti le scelte militari di Hezbollah, non si sente, in un momento così difficile per il paese, di condannarne l’operato completamente. Fare fronte comune è il motto.

Nessuno in questi mesi si aspettava che la guerra potesse scatenarsi dall’esterno, tutti presagivano un ritorno della guerra civile dovuto a dissidi confessionali. Nessuno si aspettava una reazione di tale portata da parte israeliana, in seguito ad un’operazione di guerriglia della milizia di Hezbollah. In altri momenti Israele, soprattutto negli ultimi mesi, aveva risposto a tali azioni con bombardamenti mirati, ma senza cercare di colpire le infrastrutture di uno Stato che cerca ancora di risollevarsi dalla guerra precedente.
Oggi Israele invece ha voluto lasciare un segno indelebile nella cittadinanza libanese.

Ma quanti sono i guerriglieri dell’esercito di Hezbollah uccisi? Fino ad ora non se ne ha notizia, si sa che le defezioni sono fra i cittadini, famiglie, donne, bambini. Vorrei poter dire che ci sono più di 200 morti, ma nel momento che uscirà quest’articolo il mio pessimismo mi spinge a pensare che il numero di vittime triplicherà. Si triplicheranno come le diplomatiche parole dei governi occidentali.

Intanto il prezzo del pane è alle stelle e mentre prima si poteva comprare per mille delle nostre vecchie lire, ora sembra superare le ottomila lire.
Le università hanno chiuso, i negozi aprono ad intermittenza, le televisioni sono sempre accese e le scuole ancora intatte dai bombardamenti servono da rifugio per le famiglie del sud; l’elettricità ed il combustibile arrivano a singhiozzo, e scappare dal paese attraverso l’unica frontiera nel nord, verso la Siria, può voler dire pagare 500$. Un tragitto che al massimo ne costava dieci di dollari, fino a qualche settimana fa.

In Siria la strada che unisce Tartus con Homs, a ridosso del confine col Libano, è un viavai di minibus, bus, taxi, tutti si dirigono al confine cercando anche di fare affari grazie alla improvvisa situazione creatasi.
Molti in Siria, nonostante il regime imponga un’opinione controllata, hanno accolto l’appello televisivo di Hassan Nasrallah a non farsi scappare l’occasione per infliggere una sconfitta ad Israele; in molti negozi cominciano a sventolare le bandiere gialle del “Partito di Dio”, per la strada i bambini vendono le foto del leader sciita, e si organizzano manifestazioni in ogni città.

Non hanno paura della guerra i siriani, la loro forza sta nel fatto, come mi dice un negoziante di Latakia, la città natale di Bashar al Assad, che “sia loro che i libanesi sono abituati a sopportare la guerra, sono gli israeliani che non hanno mai vissuto le bombe, ad Haifa e Tel-Aviv non sanno cosa significa vivere sotto i bombardamenti, sono loro che devono aver paura, sono loro che non resisteranno per più di una settimana nei rifugi sotterranei...”. Una visione da logica di guerra difficile da comprendere e concepire, ma che ormai quotidianamente pervade le popolazioni di questa regione senza pace. Una guerra che coinvolge principalmente la popolazione civile e che provoca la “caccia aperta” per cercare di comunicare con amici e conoscenti sparsi per il Libano. Molti stranieri sono stati evacuati fra le lacrime, molti libanesi non possono permetterselo, molti sono “costretti” a restare. E’ in tutti impellente la ricerca degli amici che vivono nel sud, a Sour o Saida, totalmente isolati dal resto del mondo; chi ha la possibilità scappa negli chalet di montagna del nord, chi non ce l’ha sta a Beirut e, come ha scritto Mahmoud Darwish in un suo libro ambientato durante l’assedio angoscioso di Beirut da parte degli israeliani nell’estate dell’82, il dolce risveglio del mattino si riduceva nel gusto di assaporare il caffé, fumare la prima sigaretta, per poi rimettersi ad ascoltare la radio o la televisione e sperare...

Anche nel 1982 l’Italia vinse la Coppa del Mondo, e sicuramente i libanesi invasero le strade della capitale per festeggiare la vittoria italiana come succedette due settimane fa. Strane coincidenze che rendono la città di Beirut speciale per chi vi vive.
Beirut è una città che provoca inspiegabilmente allo stesso istante amore e odio, una contraddizione che si trasforma in intenso amore ed impotenza in questi momenti difficili. Il senso di vuoto che sale da dentro quando bombardano una città che conosci si unisce all’impotenza, e unico rimedio alla malinconia sono ormai solo le note di Fairuz che inneggiano Bhebak ia Libnan, Ia uatani bhebak, B shmelak bi jnoubak, bi zahrak bhebak... ( Ti amo o mio Libano, mia patria ti amo, a nord o a sud, ti amo nei tuoi fiori...)

lunedì 26 giugno 2006

Il Grande Orecchio Mediorientale

Nelle strade di Beirut spesso si vocifera e si scherza, durante normali conversazioni, quando una persona sfoggia notizie di corridoio ricevute da “fonti attendibili” o sembra che sia informato su tutti gli eventi che percorrono la città nel minimo dettaglio: “Anta mukhabarat eh?!”. Il termine si riferisce al famigerato apparato di servizi segreti statale, che in ogni paese arabo è spettro per tutti gli individui e voce di cosciente disciplina.
Un apparato che ancora oggi regge molti autocratici Stati arabi. In Libano, l’idea di mukhabarat è ancora relazionata con la Siria, che fino alla scorsa primavera, solo dopo il ritiro dal paese dei cedri, regnavano incontrastati nel panorama libanese e disponevano di una portentosa rete di informatori. Molti notano ora come sia cambiato l’atteggiamento delle persone, ben più predisposte a parlare in pubblico, senza grosse paure, di politica. Fino a poco più di un anno fa, era necessaria la presenza di fidati amici per fare certe esternazioni di carattere politico.

Ora, l’ultima domenica di maggio un’inaspettata breaking news svegliò i cittadini libanesi, pronti per trascorrere la giornata nelle spiagge del sud, le più rinomate in quanto a limpida acqua cristallina. Come risposta ad un missile lanciato dal Libano verso una postazione militare israeliana sul confine, gli aerei israeliani invasero lo spazio aereo libanese (cosa che comunque succede a cadenza settimanale) e bombardarono alcune postazioni di guerriglieri palestinesi a 15 km da Beirut, ed altre nella valle della Beeka. Una rappresaglia, quella israeliana, di una tale continuità e portata, da far tornare alla mente le incursioni precedenti la fine dell’occupazione nel 2000. La rappresaglia provocò la reazione delle milizie di Hezbollah, che si dichiararono estranei al precedente attacco, e che per l’intera giornata ingaggiarono un intenso combattimento con le forze israeliane al confine sud del Libano. Pochi mezzi di comunicazione occidentali misero in luce la possibilità che le scaramucce potessero essere strettamente relazionate con l’uccisione pochi giorni prima di un membro del gruppo palestinese della Jihad Islamica e di suo fratello, nella città di Sidone, con l’esplosione di un’autobomba azionata da un comando a distanza.
L’assassinio, spinse subito le autorità libanesi a puntare il dito contro il Mossad, i servizi segreti israeliani. Normalmente di fronte alla sindrome da persecuzione araba e le tesi cospirative, tanto in voga in occidente, i mezzi di comunicazione del vecchio continente tendono a soprassedere di fronte a tali congetture.

Gli strascichi di questi avvenimenti si protrassero per tutto il mese di giugno, fino a quando i servizi di sicurezza libanesi arrestarono in una cittadina del sud il presunto autore materiale dell’attentato ai danni dei fratelli Majzoub. Durante la perquisizione della sua casa s’incontrò materiale spionistico d’alta tecnologia, passaporti falsi e documenti compromettenti. Dalle indiscrezioni della stampa locale, sembra che l’uomo avesse ricevuto la bomba sotto forma di portiera di una Mercedes, raccolta in un porto minore del nord del Libano; l’unico suo compito sarebbe stato quello di sostituire la portiera e posizionare la macchina nel luogo prestabilito. In poche ore la persona arrestata confermò di aver ricevuto il materiale da parte dei servizi israeliani. Anche in questo caso i media occidentali evitarono nella loro quasi totalità di menzionare gli sviluppi di tale avvenimento.

Quello che più lascia perplessi, è che anche i quotidiani israeliani, sempre attenti di fronte alle azioni compiute dai propri servizi, abbiano in un certo modo tralasciato la notizia. L’unico quotidiano che chiese un’inchiesta governativa fu il Yediot Aharonot, mentre Haaretz pubblicò la notizia solamente come spalla alle incursioni nella striscia di Gaza dell’esercito.
E’ quindi difficile pensare che, dopo il ritiro “pacifico” dal Libano nel maggio del 2000, non siano ancora presenti sul territorio numerosi agenti, anche considerata l’importanza libanese nello scacchiere mediorientale. Così com’è difficile credere che con il ritiro siriano dell’aprile scorso, dopo un’occupazione di ventisette anni, non sia rimasta quella consistente rete d’informatori che lavorava nel paese. Intanto gli Stati Uniti ed Israele affermano con certezza la presenza dei servizi iraniani nelle zone del sud del Libano, in supporto logistico ad Hezbollah.

Gli apparati libanesi ancora non si sa come si siano schierati, e dal governo qualcuno fa la voce grossa dicendo che pochi giorni sono bastati per risolvere questo caso, mentre ancora niente si sa nulla delle innumerevoli bombe scoppiate in questo anno solare.
Di certo, e direi sicuramente, i servizi occidentali non sono tagliati fuori da queste dinamiche informative, ma il loro lavoro è certamente più sottile.
Le strade di Beirut sono inoltre invase da guardie di sicurezza private e militari, intenti, a orario continuato, al controllo di ospedali, banche, ambasciate, consolati, catene internazionali ed a salvaguardare la libertà del cittadino. Uno scenario senza dubbio suggestivo per un paese con una popolazione pari a quella dell’Emilia Romagna. Un grande orecchio, ed un grande occhio, che farebbe invidia sia alle futuristiche fantasie del George Orwell di 1984, sia alle ipotesi grottesche del fumettista Alan Moore di V for Vendetta.

Nell’era della comunicazione le notizie viaggiano a velocità considerevole e per canali trasversali, sia a livello locale che globale, ma di certo ognuno fa uso delle informazioni che possiede a proprio piacere.

domenica 11 giugno 2006

Libano. "Panem et circensem!"

A poche ore dall’apertura delle danze del mondiale di calcio in terra tedesca, per le strade di Beirut impazzano e sfrecciano già automobili con piccole bandiere rettangolari su lunotti ed antenne, con i colori delle squadre del cuore. Se lo scettro della squadra più gettonata se lo contendono Brasile, Germania ed Italia, di certo non mancano quelle di Francia, Argentina ed Inghilterra, anche se in secondo piano, e ,più sporadicamente, quelle di Spagna ed Arabia Saudita.

Il Libano non si è qualificato per i mondiali e la Tunisia “arabo-brasiliana” non attira proprio i gusti esotici dei libanesi. Le strade che percorrono il paese sono decisamente tempestate di immense bandiere internazionali, arrivando agli estremi di vedere penzolare tra un palazzo e l’altro enormi drappi di decine di metri, da far rabbrividire gli animi dei meno nazionalisti. Bandiere che in un contesto italiano o tedesco farebbero rizzare i peli a più di una persona. La passione per le bandiere da parte dei libanesi è rinomata, ed è difficile dimenticare la marea di bandiere libanesi che invasero le piazze nella Primavera del 2005. C’è da chiedersi se, considerata la grande diaspora libanese nel mondo, sia questa una dimostrazione di affermazione multi-identitaria e frutto dell’era della globalizzazione. Si dice invece che l’attaccamento ai colori tedeschi sia dovuto alle belle e fiammanti autovetture made in germany che sfrecciano per le strade della capitale; quello all’Italia “perchè Libano ed Italia sono così simili, in entrambi i paesi c’è la passione per l’apparenza”; ed al Brasile per i 14 milioni di libanesi che vivono là in quelle terre... Mentre già circolava per la città, nelle scorse settimane, lo spettro di un aumento mensile del costo per assistere alle partite del mondiale (di cui bisogna ricordare che è un sistema pirata), il governo libanese ha deciso di rimboccarsi le maniche e regalare ai suoi “cittadini” un mondiale gratuito e senza patemi da portafoglio!

Il governo, nelle persone del Ministro delle Telecomunicazioni Marwan Hamade e quello dell’Informazione Ghazi Aridi, si sono così prostrati a far da tramite tra la catena saudita ART, proprietaria dei diritti televisivi, e gli illegali fornitori locali del cavo satellitare. Per una somma di 500mila dollari, che i fornitori dovranno versare ad ART, nessun cittadino dovrà spendere nemmeno 1000 lire libanesi in più.

Tutto bene è quel che finisce bene.

Forse però bisognerebbe ricordare la situazione di un paese che negli ultimi dieci giorni ha assistito ad un’escalation della tensione sia interna che esterna, e che sta preoccupando non poco lo stato d’animo dei libanesi, che vedono lo spettro della guerra civile ricomparire a più riprese. Prima di tutto, i seri scambi d’artiglieria al confine meridionale, tra Israele ed Hezbollah la settimana passata (di cui molti giornali internazionali hanno dato notizia, ma senza troppo rimarcare sull’uccisione il giorno prima, con n’autobomba, di un rappresentante della Jihad Islamica palestinese, a Saida: nessuna rivendicazione). Quindi, la reazione della comunità sciita che, in seguito ad una parodia televisiva del loro leader indiscusso Hassan Nasrallah, nella notte di giovedì è scesa in strada partendo dalle banlieu del Sud, fino ad arrivare alla centralissima Rue Monot, seminando scompiglio nei quartieri attraversati dalla folla inferocita per l’oltraggio.

Qui le diverse versioni dei fatti si accavallano l’una all’altra, principalmente in conseguenza al ricovero in ospedale di Samy Gemayel, figlio dell’ex Presidente Amin, e di altri suoi compagni del movimento Loubnanouna. Si dice che per coincidenza si trovassero in quel momento in un locale poco distante e cercassero di salvare il quartiere cristiano dall’invasione sciita. Lo spettro, anche qui, degli episodi di teppismo susseguitisi nel quartiere cristiano d’Achrafiye, dopo l’assalto all’ambasciata danese del 5 febbraio, rimane vivo nella comunità cristiana di Beirut. Per una politica di ripartizione confessionale della libertà d’espressione, si è deciso anche nei giorni scorsi, di bandire il kolossal il Codice Da Vinci, sotto forte pressione dell’alto clero cristiano. Il sabato della stessa settimana invece, in piena ora di punta, sulla Corniche beirutina, si è registrato uno scontro a fuoco tra le automobili del figlio del Presidente Lahoud ed il figliastro di Walid Joumblatt, uno dei leader dell’opposizione. I testimoni affermano che semplicemente erano nate divergenze su chi doveva passare per primo allo scattare del semaforo verde: il rappresentante del Governo del 14 marzo o quello dell’opposizione pro-siriana dell’8 di Marzo. Nell’arena della politica libanese, a far da spartiacque fra le due coalizioni, sfortunatamente, solo pochissimi attori della società civile che non hanno la forza, l’appoggio ed i mezzi per avanzare un’alternativa più invitante ai cittadini libanesi ormai stanchi delle baruffe fra le diverse elite al potere.

Dopo la tempesta di bandiere libanesi della Primavera 2005, e con l’avvicinarsi dei prossimi mondiali, c’è da sperare che si formi una nuova elite che potrebbe scalzare il potere della vecchia guardia uscita dalla guerra civile e frutto del capitalismo sfrenato post-guerra: la nuova elite dei produttori di bandiere, uscita rafforzata dalla primavera di Beirut e dai mondiali di calcio in Germania...l’opzione di intervento tedesco nello scenario mediorientale si fa sempre più chiara...

martedì 14 febbraio 2006

Libano. Febbraio 2006, un anno dopo

Intorno a Piazza dei Martiri ed al fatiscente centro cittadino, rimangono ormai solo mucchi di bottiglie vuote, fogli di giornale, lattine e gli operai della Sukleen, la compagnia nazionale libanese di pulizia delle strade. Li si vede arrivare, nelle loro tute verdi, ammassati a decine su camion con ringhiere e tetto aperto, e allo stesso modo se ne vanno, silenziosi come sono arrivati, dopo aver finito il proprio lavoro.


Fa un certo effetto vedere tante persone pigiate in un così piccolo spazio, con l’uniforme dello stesso colore, caricate su dei camion, pronte per tornare al campo base. Per lo più sono africani ed asiatici, ma sono molti anche gli immigrati siriani. Per loro non deve essere cambiata molto la vita nell’ultimo anno solare, dopo la morte dell’ex Primo Ministro Rafiq Hariri e gli innumerevoli eventi che ne sono susseguiti. Non sembra che la politica del paese li investa più di tanto, e non saprebbero scegliere tra la vecchia tutela siriana e la nuova indipendenza libanese. Come oggi, così un anno fa, allo stesso modo, erano nella stessa piazza a compiere il loro lavoro. Da quel 14 di febbraio del 2005 sono già passati 365 giorni, come scandisce il calendario elettronico installato all’entrata della tomba del defunto Hariri, e la popolazione è tornata a riversarsi per le strade e le piazze della capitale. Già dalla notte precedente le misure di sicurezza sono eccezionali, i controlli anche molto stretti per chi entra nel perimetro del centro città, e sono molti quelli che decidono di passare la vigilia dormendo sotto il tendone allestito nei pressi della tomba del loro antico leader. L’aria che si respira, già dalla mattina presto, è quella di festa.

Famiglie intere scendono in piazza munite di bandiere e gridando slogan ad alta voce, l’atmosfera è primaverile, il sole batte forte ed il leggero vento fa ondeggiare verso il mare le bandiere come solo faceva nelle giornate della primavera di un anno fa. Le bandiere, per questa volta, sono principalmente quelle nazionali, bianche e rosse con il cedro verde, scomparse magicamente negli ultimi mesi, come ne fu esempio in dicembre il funerale di Gebran Tueni, lasciando spazio a stendardi e vessilli che rievocavano l’identità politica confessionale più che nazionale. Ma fra tutti i colori presenti, spicca l’assenza di quello arancione, dei sostenitori del generale Aoun, conseguenza del recente accordo con il partito di Hezbollah, ormai nelle file della nuova opposizione.

L’atmosfera assomiglia moltissimo a quella del 14 marzo, data dell’mponente manifestazione cittadina che portò in piazza un milione di persone, ma si respirano alcune piccole differenze, sia quantitativamente che qualitativamente.

Le manifestazioni della primavera scorsa furono frutto di un certo sbottamento popolare a decade di autoritarismo siriano, e si poteva notare la spontaneità. Forse in questa giornata la speranza, l’utopia e l’illusione, di poter cambiare l’intero sistema in un giorno di mobilitazione, ha lasciato spazio alla stanchezza di un anno lunghissimo di eventi per lo stato libanese e per i suoi cittadini. Ma il risultato della manifestazione rimane comunque sorprendente, se si considera che sicuramente più di cinquecentomila persone hanno partecipato alle celebrazioni di quest’anniversario. Le settimane anteriori non lo presagivano e si contraddistinsero invece per il “terrorismo popolare” del pericolo attentati, e gli episodi relativi all’incendio dell’ambasciata danese, con i conseguenti incidenti confessionali, marcarono molto l’immaginario collettivo libanese.

Dopo aver manifestato per le strade sotto il lemma di Independence 2005, ora lo fanno sotto quello di Freedom 2006, il nuovo motto nazionale. La stessa storica Piazza dei Martiri, nominata in onore dei ribelli al dominio ottomano, vuole ora essere ribattezzata da certi nuovi leader, come Piazza della Libertà, scippando così alla storia collettiva la prima vera lotta di indipendenza nazionale nel diciannovesimo secolo. Anche i graffiti spontanei della primavera del 2005 sono completamente scomparsi. I muri son stati minuziosamente e appositamente ripuliti, ricordo di una “rivoluzione” popolare e spontanea, in un paese dove il tema della memoria collettiva è ancora difficile da affrontare e rimane appannaggio di una privilegiata classe politica. Mancano anche gli innumerevoli cartelli e poster come “Syria Out” o “Zoom out”, inneggianti al ritiro delle truppe siriane dal paese, simbolo ora di un obiettivo quasi raggiunto.

All’appello in Piazza dei Martiri mancano anche Samir Kassir, Gebran Tueni e George Hawi, figure di spicco della primavera passata, assassinati dalla stessa simile codarda bomba senza nome e rivendicazione. Sono invece presenti, ed insieme pubblicamente per la prima volta, Saad Hariri, Walid Jumblatt e Samir Geagea,quest’ultimo liberato dal carcere grazie all’ennesima amnistia ad hoc, che rifiuta di mettere sul banco degli imputati coloro che insanguinarono il Libano in quei terribili quindici anni di guerra civile. C’è da scommettere che il solido “trio” riapparirà spesso sulla scena politica nazionale, in nome di un interconfessionalismo che spesso risulta troppo retorico nella sua ricerca della verità sull’omicidio dell’ex leader Rafiq Hariri. Saad Hariri è tornato in Libano dopo mesi di autoesilio tra Francia ed Arabia Saudita, per pericolo di un attentato alla sua vita, principalmente per partecipare all’anniversario del padre.

Lo stesso vale per Jumblatt e Geagea, rinchiusi per motivi di sicurezza nei loro palazzi, con sporadiche uscite da quando fu assassinato Gebran Tueni in dicembre. Tutti e tre hanno preso i propri rischi, rischi non certo fittizi, e sono scesi a Piazza dei Martiri, parlando ai loro sostenitori dietro un vetro anti-proiettile che ricordava molto quello usato dal generale Aoun, nel suo primo discorso alla popolazione, dopo il ritorno dall’esilio, in maggio.

Il “Generale” è sicuramente il grande assente della giornata. I discorsi dei leaders sono pungenti e quasi congiunti. Si richiama all’unione interconfessionale, in nome dell’indipendenza nazionale, ma si accusano anche senza mezze parole sia il Presidente Emile Lahoud sia Bashar Assad, spostando così il baricentro della manifestazione verso un forte sentimento antisiriano, intriso di forte connotazione politica per la commemorazione di un defunto. A questo punto, concluse le parole, rimangono solo gli inni nazionali, ed i manifestanti cominciano a lasciare la piazza alla spicciolata. Ognuno prende la sua direzione di ritorno verso casa, verso un territorio ancora marcato confessionalmente.

Nonostante i passi da gigante che sono stati fatti nell’ultimo anno solare, per l’ottenimento di una reale indipendenza nazionale, delle quali si sono poste discrete basi, quello che più ha vinto è stato forse il confessionalismo politico, ed il ritorno identitario verso la comunità di appartenenza. Imprevedibile, e vittima di un fragile equilibrio, rimane ancora il futuro libanese.

lunedì 6 febbraio 2006

Libano. L'ingresso di Al-Qaeda nello scenario politico libanese

Nella notte fra giovedì e venerdì una bomba a scarso potenziale è esplosa nei pressi di una caserma militare, nel quartiere di Ramlet el-Baida, nella prima periferia beirutina, provocando pochi danni materiali ed un solo ferito lieve.


La rivendicazione, già preannunciata con una chiamata ad un quotidiano locale, è stata fatta a nome di Al-Qaeda, e proveniva da un telefono pubblico situato nel campo rifugiati di Ain el-Hilweh, uno dei luoghi che maggiormente fa discutere l’opinione pubblica nazionale, nel dibattito sulla presenza di armi fuori e dentro dei campi. Questo “attacco” della rete islamista, fa seguito all’episodio del lancio di razzi katyusha da territorio libanese in suolo israeliano (per la cui rivendicazione si è mosso lo stesso al-Zarqawi in persona), ed all’arresto di una quindicina di presunti membri della rete nelle scorse settimane, i più dei quali siriani, palestinesi e libanesi. Ma fino a che punto si possono accogliere con completa sicurezza tali rivendicazioni? Bisogna ricordare che anche l’attentato di cui fu vittima l’ex-primo ministro Rafic Hariri fu rivendicato da un gruppuscolo legato ad Al-Qaeda; allo stesso modo l’assasinio di Gebran Tueni; anche il piano “sventato” che avrebbe dovuto attaccare l’ambasciata italiana a Beirut (che fra l’altro si dimostrò completamente incosistente e che costò la vita in carcere, per motivi di salute secondo le autorità, ad uno degli indagati per il crimine) sarebbe stato opera di un gruppo legato alla rete binladeniana.

Sicuramente la società libanese, ed in particolar modo quella di Beirut, il cui divario sociale inconcepibile e stupefacente salta prepotentemente all’occhio, con modelli di vita opposti che si scontrano nello stesso spazio pubblico, può essere facile brodo di coltura per la germinazione di tali gruppi radicali.La presenza di un incredibile numero di obiettivi sensibili, come rappresentanze straniere, multinazionali e luoghi di ozio e divertimento, in contrasto con le povere zone periferiche, non può che far aumentare l’allerta di giorno in giorno.

Ma quello che più è certo, e quello che più tristemente interessa la classe politica locale, è la sua facile manipolazione a fini politici. Da una parte, e si parla dei rappresentanti dei partiti di governo, si chiamano per l’ennesima volta in causa i piani segreti delle forze siriane che hanno intenzione di destabilizzare il Libano, con l’aiuto d’incontrollati gruppi palestinesi. Dall’altra, soprattutto da parte dei rappresentanti dei campi profughi negando ogni implicazione, si grida al complotto americano-sionista, una voce che attecchisce bene nel sostrato più basso della popolazione.

La politica di portare acqua al proprio mulino come risposta a qualsiasi evento di risonanza nazionale, è difficile da sradicare. L’entrata prepotente di Al-Qaeda nello scenario libanese, potrebbe portare la situazione già fortemente instabile, a livelli di guardia preoccupanti. Intanto dopo il ritrovamento di un giovane pastore senza vita, crivellato di colpi d’arma da fuoco, sul conteso confine libanese-israeliano, ha provocato la reazione della “resistenza islamica” di Hezbollah, che ha attaccato nella giornata di venerdì diverse postazioni militari israeliane nell’area delle fattorie di Shebaa. La voce del “partito di Dio” si sta facendo largo sulla scena nazionale libanese e comincia a farsi più politicamente chiara, forse galvanizzata dalla vittoria di Hamas in Palestina.

Lo stesso segretario generale del partito Hassan Nasrallah ha avvertito il nemico di ricordarsi che suo compito è quello di “resistere” all’intruso israeliano, azzerando così il dibattito nazionale sul possibile disarmo della milizia, ed ha dichiarato chiaramente per morto il quadripartito d’unità nazionale che si era formato in giugno dopo le elezioni nazionali. Sono ormai lontani i tempi in cui Hezbollah si limitava a salvaguardare la “resistenza”, lasciando libero il campo politico ad altri attori.

La situazione complessiva libanese, in cui potrebbero inserirsi anche diversi gruppi radicali islamici, rimane un difficile groviglio da sbrogliare, e l’arma del dialogo sembra che non sia in questo momento una delle più utilizzate.

sabato 21 gennaio 2006

Libano. Quella stravagante identità drusa...

In questi primi giorni dell’anno nuovo la scena politica libanese, quella mediatica, è continuamente scossa dalle giornaliere esternazioni del leader della comunità drusa, Walid Jumblatt. Un giorno il leader druso si permette arditi commentari, il giorno dopo si accavallano le reazioni indignate delle vittime delle sue parole, il giorno seguente si cerca di ripiegare e aggiustare il tiro, per poi seguire un andamento circolare che già intrattiene il “pubblico” libanese da quasi un mese.


La popolazione libanese è ben conscia degli “sbalzi d’umore” e del carattere trasformista del bey Jumblatt, tanto che lo fa uno dei personaggi meno rispettati all’interno dell’arena politica libanese, chiaramente fuori dalla sua comunità, e secondo un ipotetico sondaggio nazionale. La scintilla che ha fatto scattare le sue destabilizzanti esternazioni, che ultimamente hanno come pericoloso obiettivo quello di portare alla luce la reale politica del partito sciita di Hezbollah, è stata l’uscita dal governo d’unità nazionale di Fuad Siniora dei cinque ministri sciiti, dopo che il blocco di forze del 14 marzo aveva chiesto una commissione internazionale sull’assassinato di Rafiq Hariri.

Fra un episodio e l’altro, le dichiarazioni televisive da Parigi dell’ex vice-presidente siriano Khaddam, un testimone incredibilmente non preso in considerazione dalla Commissione Mehlis fino a quel momento, e le conseguenze di tali parole sulla scena libanese ( è tuttavia necessario sottolineare come nessun mezzo di comunicazione nazionale ha cercato di minimizzare le sue parole, e ricordando invece i suoi legami “di parentela” con la famiglia Hariri).

Fino a tre anni fa il leader druso era uno dei “migliori amici” della potenza occupante siriana e nulla avrebbe fatto pensare che si sarebbe potuto trasformare in quello che oggi rappresenta, e ciò che ha rappresentato durante la Primavera di Beirut. Jumblatt, con i suoi ministri fedeli, fu il primo rappresentante politico nell’estate del 2004 a boicottare la proposta di rinnovamento per ulteriori tre anni del mandato al presidente Emile Lahoud. Marwan Hamade, un suo fedelissimo, fu il primo rappresentante politico ad inaugurare la serie di tentativi d’assassinato tramite autobomba, ma miracolosamente ne uscì illeso.

Lo stesso Jumblatt organizzò e formò il blocco dell’opposizione, prima e dopo l’omicidio Hariri, ospitandone il “parlamento” nel suo palazzo della Moukhtara, sulle montagne dello Chuf. Il suo forte carattere antisiriano, soprattutto durante le manifestazioni di piazza della primavera, con la successiva elezione del suo blocco, si è visto attenuarsi in nome della difesa, contro la Risoluzione ONU 1559, delle armi in mano alla milizia di Hezbollah, e della sua tutela in nome della resistenza contro il nemico comune israeliano.

La stessa strenua difesa della “resistenza” si tramutò, dopo la crisi di governo pre-natalizia, in un feroce ma indiretto attacco a Hezbollah, reso esplicito dal commento del leader druso sul fatto che le armi nelle mani di gruppi armati possano essere “strumenti di tradimento” per la nazione.

Dopo gli scontri di piazza fra esercito e studenti di sabato pomeriggio, in seguito alla visita in Libano del diplomatico statunitense David Welch, a che si accusa d’ingerenza inaccettabile nella politica interna libanese, ed il successo insperato della manifestazione anti-americana di fronte all’ambasciata degli USA, le reazioni non si sono fatte attendere. La manifestazione di martedì che si è contraddistinta per la presenza di numerose bandiere libanesi, chiari slogan di supporto ad Iran e Siria, ed altri di carattere decisamente antiamericano e antisraeliani, è stata organizzata dalle cosiddette forze dell’8 marzo, in relazione alla manifestazione svoltasi nella primavera, formate principalmente dagli sciiti libanesi e da quei partiti filo-siriani. (tra l’altro occorre notare come i principali mezzi di comunicazione definiscano questo blocco come “attivisti pro-Damasco”, “forze anti-14 marzo”, “organizzazioni giovanili pro-siriane”,...).


L’ultima dichiarazione di Jumblatt vede “la mano di Damasco ed Iran” dietro le sembianze della bandiera libanese.In un momento dove è sempre più evidente che il Libano è diventato terreno di scontro tra le forze occidentali da un lato, il cui intervento è caldeggiato da una buona parte di politici libanesi, e la Siria e l’Iran dall’altro, e dove le Nazioni Unite non riescono ormai più ad assumere un serio carattere di mediatore super partes, la situazione sembra di non facile soluzione.


Conoscendo la grande importanza dell’identità comunitaria in Medio Oriente, e la forte influenza in questa regione del leader, in grado di essere seguito ciecamente dai suoi seguaci, ed in grado di cambiare l’identità collettiva di un gruppo di persone ( ricordo che la maggioranza dei drusi è anche “ socialista”, nel senso che il partito “confessionale” di riferimento è il Partito Socialista Progressista, ma escludo a priori che molti sappiano cosa è realmente il socialismo...), mi chiedo cosa stia passando per la testa del druso medio, quello che vive nelle montagne dello Chuf, che ha cieca fede nel suo master, e che prende le sue parole come oro colato.

Forse si sta chiedendo se la sua identità non stia passando da essere panarabista e pro-siriana, marcatamente anti-israeliana e pro-palestinese, fino a pochi anni or sono, ad un’identità di carattere nazionale libanese, dopo la primavera di piazza, e, fino al limite dell’impensabile fino a poco tempo fa, di pro-americana e occidentalista in seguito alle ultime esternazioni del loro leader...