venerdì 16 dicembre 2005

Niente lacrime, Gebran non è morto, An-Nahar proseguirà”

Nella notte di venerdì, nella città di Balbeck, un esponente provinciale di Hezbollah, è sfuggito ad un attentato esplosivo che avrebbe sicuramente messo fine alla sua vita. Nessuna rivendicazione, ma la “resistenza islamica” ha subito accusato i servizi segreti israeliani di essere dietro tale atto. Sabato pomeriggio un lavoratore, tornando a casa nelle montagne dello Chuf, e sulla stessa strada che conduce al palazzo della Moukhtara, casa del leader druso Walid Joumblatt, ha ritrovato ai bordi della strada quattro lanciagranate pronti per essere collegati ad un detonatore. Il fatto che la strada fosse stata controllata il giorno precedente dalle forze di sicurezza, lascia pensare che l’esplosivo fosse stato posizionato la mattina stessa. Joumblatt, uno dei leader dell’opposizione antisiriana, non ha tardato in lanciare accuse verso i “servizi corrotti di paesi limitrofi”. Domenica, in un’intervista per una televisione russa, il presidente siriano Bashar Al-Assad, in attesa del rapporto ONU del giorno successivo, ha dichiarato che la instabilità in Iraq ed in Siria provocherà disordine in tutta la regione; parole che sono suonate funeste per molti.

Contemporaneamente Gebran Tueni, direttore del giornale libanese An-Nahar, uno dei promotori della cosiddetta “rivoluzione dei cedri”, una voce importante contro l’ingerenza siriana in Libano, arriva all’aeroporto di Beirut, dopo un lungo periodo di “auto-esilio” in Francia per paura di un attentato ai suoi danni.

A distanza di poche ore, lunedì mattina, mentre si dirigeva verso la redazione del suo giornale, chissà proprio per coordinare l’uscita del giorno seguente, con articoli pungenti sul coinvolgimento di alte sfere siriane nell’omicidio dell’ex Primo Ministro Hariri, più di 100kg di esplosivo hanno distrutto il suo fuoristrada blindato, catapultandolo giù per una scarpata, uccidendo con lui altre tre persone, tra cui le sue due guardie del corpo personali.

Ancora lunedì, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha reso noto il rapporto redatto dal procuratore Dethlev Mehlis, in cui, nonostante niente di particolarmente nuovo sia scaturito negli ultimi mesi, si consiglia vivamente al governo siriano di mettere sotto custodia ed a disposizione della commissione i presunti implicati nell’inchiesta. Dal “lontano” 25 settembre, giorno in cui May Chidiac, la presentatrice della televisione LBC fu vittima di una bomba collocata all’interno della sua automobile, lasciandola per sempre mutilata, che non si verificavano atti di una tale violenza e di una tale forza destabilizzante. Sicuramente Gebran Tueni faceva parte della famosa lista nera di cui molti parlarono, ma di cui solo si possono presumere i nomi.

Tutti sembrano indicare, dentro e fuori dal Libano, che i servizi segreti siriani, ancora forti in Libano, siano dietro tale attentato; ma come non cercare di guardare dietro ad un teorema tanto semplicistico che ha tutta l’apparenza di concentrare maggiormente l’attenzione sulla Siria, e sembra un tentativo di suicidio politico? Tutte le forze internazionali stanno puntando l’indice contro la Siria, di certo non migliorando la sua situazione di fronte alla comunità internazionale. Si aspetta solo di convincere Russia e Cina a non usare il loro diritto di veto nel caso di una decisione del Consiglio di Sicurezza a favore di sanzioni economiche nei confronti dello stato siriano.

Alla luce di questi fatti concatenati, sembra che l’unico obiettivo reale sia quello di creare tensione, ma chi giovi un Libano destabilizzato ed una generale tensione in Medio Oriente, è una risposta di non facile interpretazione. Intanto un altro giornalista libanese se ne va, e di lui rimangono soltanto le ultime immagini e parole scritte dalle colonne del suo giornale. Nelle piazze della capitale, assistendo alle moltitudinarie manifestazioni cittadine; con una simbolica penna in mano dopo l’uccisione del compagno di redazione Samir Kassir, anch’egli vittima di una bomba ignota, a dimostrare il supporto per la libertà d’espressione; o ancora sorreggendo verso gli ultimi metri la bara del suo ex compagno. Il padre Ghassan Tueni, ha confermato che An-Nahar proseguirà col suo lavoro, nonostante i tentativi di decimarlo, ed “Il Giorno” continuerà, quasi a parafrasare inconsciamente una delle poco attendibili rivendicazioni ricevute, a nome dei Combattenti per l’Unità e la Libertà del Levante, che dichiararono di avere trasformato “il Giorno” in una cupa notte.

Ultimamente Gebran era uno di quelli che maggiormente avevano alzato la voce, invocando un tribunale internazionale per il Libano, in seguito alla scoperta di “fosse comuni” contenenti cadaveri di soldati libanesi, riconducibili al periodo della famosa guerra di liberazione nazionale, che vide opposto il generale Aoun e le truppe siriane. Proprio in quell’occasione, poco più di una settimana fa, si era rivolto al Presidente della Repubblica libanese Emile Lahoud, indicandolo come unico responsabile di quegli atroci atti, essendo egli capo delle forze armate nel momento in che accaddero tali eventi.

sabato 11 giugno 2005

Libano. Samir Kassir, quando muore un giornalista...

Qualcuno sostiene che non c'è stata una partecipazione massiva in segno di disprezzo nei confronti di chi ha commesso questo orrendo attentato, altri affermano che non molti libanesi lo conoscevano veramente, altri ancora dicono semplicemente che i partiti (o le comunità) non hanno voluto muovere le masse nel bel mezzo di un complicato processo elettorale che dovrebbe portare al potere le forze della cosiddetta "opposizione", coloro che propugnano il cambio dopo il ritiro siriano dal Libano dello scorso aprile.

Forse, invece, è semplicemente sintomo della profonda frustrazione della popolazione libanese, poiché nonostante il ritiro siriano, considerato da tutti come la panacea per il futuro e fonte di ogni male passato, la situazione non stia evolvendosi come delineato e sperato. Molti si sentono imbrogliati dall'opposizione, o da chi li ha rappresentati durante le storiche giornate di piazza di questa primavera, perché hanno saputo solo cavalcare la "onda rivoluzionaria" a fini ed interessi personali.
La popolazione è ormai costretta a convivere con una sorta di tensione provocata dalle bombe "destabilizzanti", ed allo stesso tempo con piccoli ma significativi screzi e provocazioni che stanno sorgendo tra le diverse comunità, con certe punte di violenza fisica e verbale.

Il processo elettorale allo stesso tempo si sta rivelando quanto di meno "rivoluzionario" possa una mente concepire, fra accordi politici tra vecchie e obsolete figure del passato, e con trasversali alleanze che, alla luce delle centinaia di migliaia di persone scese nelle piazze negli scorsi mesi, sembravano ormai un ricordo del passato.
Resta il fatto che al funerale di Samir Kassir, giornalista e pungente editorialista del quotidiano an-nahar, il numero delle persone presenti non era decisamente consistente: la gente a lui più prossima e cara, una grande maggioranza di studenti (principalmente alunni del corso che impartiva all'Università Saint-Joseph), una certa componente intellettuale libanese, i moltissimi giornalisti che affollano la città di Beirut, i rappresentanti politici dell'opposizione, ma non molte persone comuni, come quelle che presenziarono il funerale dell'ex primo ministro Rafiq Hariri e le successive dimostrazioni antisiriane.

Saad Hariri, da molti dipinto come colui che prenderà le redini del paese sulle orme del padre, è arrivato in clamoroso ritardo in piena cerimonia funebre, forse per motivi di sicurezza, ed ha ricevuto solo timidissimi applausi, al pari di Bahia Hariri, sorella dell'ex-premier; non altrettanto è stato per Walid Jumblat, il leader druso, grande amico del giornalista assassinato, cui aveva "regalato" alcune guardie private personali nei mesi anteriori, o per Gibran Tueni, direttore del quotidiano an-nahar, eletto nella circoscrizione di Beirut sotto la lista Hariri, che ha accompagnato la bara sulle spalle per i primi metri del corteo.
Le reali dimensioni del corteo funebre si sono rivelate solo quando, conclusa la cerimonia nella chiesa ortodossa di Downtown, nel cuore del patinato centro cittadino, il corteo si è incamminato, spogliato del grosso seguito di giornalisti, verso il quartiere cristiano di Achrafieh.
Meno di un migliaio di persone ha accompagnato la salma di Samir Kassir in un pacato mezzogiorno di giugno, per le strade pressoché vuote della capitale libanese, ed in un frastornante silenzio.

La commozione dei presenti è grande, molti sono i volti di giovani in lacrime, ma decisamente poca l'affluenza della gente nel portare l'ultimo segno di rispetto verso una voce libera della stampa libanese, nonché uno degli organizzatori dell'accampamento in Piazza dei Martiri, e promotore di "Independence 2005".
Le stesse milione di persone scese in piazza gridando lo slogan "Siria out" avrebbero forse dovuto accompagnarlo anche in questo suo ultimo tragitto; lui stesso scriveva sovente taglienti articoli contro la presenza siriana in Libano ed allo stesso tempo contro la politica siriana in Siria, ribadendo sempre e costantemente di non cadere nell'errore di confondere la classe politica con la popolazione siriana, anche loro vittime, e vittime di attacchi "xenofobi", se così si possono definire, nel Libano post-Hariri.

Sembra che dopo il ritiro formale siriano ad aprile, nel mezzo di una campagna elettorale intrisa di interessi politici e personali, non in molti si siano preoccupati di andare a portare rispetto ad una persona che ha contribuito fortemente al "cambio" di quest'anno.
Ora le sue foto, i suoi poster, oltre all'immensa gigantografia affissa all'entrata della redazione di an-nahar, campeggiano per le strade di Beirut, a lato dell'altro martire Rafiq Hariri, ma a lato anche delle usuali facce, più o meno conosciute, da campagna elettorale.
Per quanto tutti a Beirut approfittino di ogni incontro per parlare di politica con grande passione, ed è possibile denotarlo facilmente nei caffè o all'interno dei taxi collettivi, una certa disaffezione si può constatare dall'affluenza alle urne nella circoscrizione della capitale, dove le 19 poltrone a disposizione erano pressoché già assegnate prima delle consultazioni, e che si è rivelata al di sotto del 24%, magro risultato per un paese con tanta voglia di cambiare.

Nel mezzo di un processo politico elettorale, dove tutti stanno aspettando unicamente il risultato incerto delle montagne, del Jabal Lubnan, sembra che nessuno voglia turbare lo status quo delle cose, al meno fino alla fine delle consultazioni, dove sembra che l'opposizione della lista Hariri possa guadagnare la maggioranza, tra inconciliabili dispute interne e complicati valzer di alleanze anche con rappresentanti leali all'antico governo filo-siriano, fino ad un mese fa acerrimi nemici.
Sembra curioso, che proprio nei palazzi che attorniano il luogo dove era posteggiata l'alfa romeo bianca del defunto giornalista, fatta saltare in aria con millimetriche cariche esplosive che non hanno praticamente danneggiato le vetture circostanti e sintomo di un lavoro di grande professionalità, ricorrano affissi nei muri frequenti poster con l'invito al boicottaggio delle elezioni, indetto da alcuni rappresentati della comunità cristiana, in protesta nei confronti della "ingiusta" legge elettorale che favorisce l'antica classe politica al potere.

Una voce, una coscienza individuale che avrebbe forse dovuto muovere più persone, ma che invece ha ricevuto l'ultimo accorato saluto soltanto da una schiera di "pochi intimi". Una persona, ufficialmente greco cattolico di confessione, palestinese di etnia, arabo di filosofia, francofono di educazione, difensore del popolo siriano, una voce isolata che non è riuscita a far breccia negli animi libanesi, che si sentono forse ancora una volta vittime del sistema confessionale e fortemente disillusi dall'ennesima pantomima politica.
Intanto ingenti forze dell'ordine sono pronte a sedare la "rivoluzione" che potrebbe scoppiare dopo la celebrazione della cerimonia funebre, ma niente più accade, i presenti sono lì per rivolgere l'ultimo saluto ad una persona che cercava di coscienzare gli individui, che aveva fortemente a cuore la salute del suo paese, una persona prima di tutto.

domenica 15 maggio 2005

I ciliegi maturi di Muhammad e le “Fattorie di Shebaa”: specchio dell'incerto futuro libanese

Con il ritiro delle truppe siriane è sempre acceso il dibattito su quest'area, che vede come protagonisti Hezbollah, Iran, Siria, Israele e comunità internazionale. Una zona da venti anni disabitata, ma che rappresenta uno dei principali punti di forza per la resistenza anti-israeliana in Medio Oriente...

Muhammad sta smottando il terreno nel suo campo di Shebaa, attorniato da ciliegi quasi maturi e rigagnoli d'acqua, una cittadina di un migliaio di abitanti prossima alla linea Blu tracciata dalla Nazioni Unite dopo il ritiro israeliano dal Libano nel 2000, ed alle omonime Mazrah Shebaa, un agglomerato di quattordici fattorie occupate dall'esercito israeliano.

"Al tempo dei francesi c'era rispetto per l'agricoltura e la natura, c'erano degli incentivi, ora tutto è andato perso, nemmeno le rondini si fermano più a passare la stagione qui". Quest'uomo di 75 anni ha sempre vissuto qui, e tutta la vita ha lavorato la terra e pascolato bestiame, ha assistito al periodo del Mandato francese, all'arrivo dei siriani, la resistenza palestinese del 1967 e la conseguente occupazione israeliana, fino alla guerriglia dell'esercito popolare di Hezbollah negli ultimi anni. Muhammad ha una memoria lucida nel raccontare gli avvenimenti relativi al suo villaggio ed alle fattorie che un tempo coltivava.

La questione delle Mazrah Shebaa, le Fattorie di Shebaa, un'area di 25 km quadrati sul versante occidentale del monte Hermon, è un intreccio di interessi strategico-militari, dispute su sorgenti d'acqua, strascichi della guerra arabo-israeliana e giochi di potere che attanagliano il Libano fin dai primi anni della sua esistenza, in cui anche in questo caso a farne le spese è la popolazione locale. Lo Stato libanese, e soprattutto Hezbollah, con l'appoggio di Siria e Iran, rivendica questi territori come propri, mentre Israele e le Nazioni Unite dichiarano la sua appartenenza ai siriani, come le vicine alture del Golan, ancora sotto occupazione militare israeliana dopo la guerra del 1967.

Le sette postazioni logistico-militari israeliane, dai picchi delle varie montagne in cui sono installate, con i suoi grandi radar e ripetitori, sovrastano l'intera area occupata, e sono ben visibili dal territorio libanese. La leggenda vuole che Abramo, ancora incredulo dell'esistenza di Dio, sia salito su una di queste montagne, e dopo aver rilasciato un uccello che aveva fra le mani, questo si tramutò in quattro splendidi uccelli, tornando poi solitario tra le sue mani, e togliendogli ogni scetticismo, dice Muhammad.

"Io sono libanese, la mia carta d'identità è libanese, i miei figli e i miei nipoti sono nati qui ed ora stanno tutti a Beirut perché qua non c'è lavoro e non si può studiare…certo che le mazrah sono libanesi, tutte e quattordici, ogni famiglia qui a Shebaa ne aveva una in proprietà ed alcune erano divise tra più famiglie, ci trasferivamo là d'inverno, per cinque o sei mesi, perché il clima era migliore e qui faceva troppo freddo." Con la mano indica l'altro versante della montagna.

"In estate invece andavamo e tornavamo, era un'ora di cammino a dorso di mulo, là ci sono i ciliegi come qua, ma il clima è più secco, il terreno è ancora più duro e c'erano principalmente ulivi e fichi d'india."

La situazione non cambiò sostanzialmente fino al 1967, quando durante la guerra arabo-israeliana, questi ultimi occuparono il territorio facendo indietreggiare i siriani. "Sono rimasto fino al 1970, anche perché la resistenza ci incoraggiava a non abbandonare le terre, ma poi la situazione è diventata insopportabile, eravamo continuamente tra due fuochi ed eravamo vittime di bombardamenti e rappresaglie, e poi c'erano mine dappertutto. Così ce ne siamo tornati stabilmente a Shebaa città e fino al 1975 andavo e venivo in giornata, per coltivare un po' la terra e pascolare, ma dovevo fare attenzione agli israeliani, per tre o quattro volte mi hanno portato in Israele per qualche giorno, e mi facevano un mucchio di domande sui fedayin.

"Nel 1975 Israele chiuse definitivamente l'accesso all'area, da quel momento nessuno ha saputo più niente, e gli israeliani nemmeno hanno proposto la cittadinanza ai suoi abitanti, come fecero nelle confinati alture del Golan. "Nel 2000 ci aspettavamo che se ne andassero anche dalle fattorie, ma la speranza fu inutile ed i combattimenti si fecero invece quotidiani."

Da quando, infatti, nel maggio del 2000 l'esercito israeliano cominciò il ritiro dal Libano, occupato durante la guerra civile, si incrementarono gli attacchi della resistenza libanese, di Hezbollah principalmente. Proprio non lontano da Shebaa, sulla linea blu controllata dalla forza multinazionale dell'UNIFIL, in un'operazione militare, celebrata sul luogo con tanto di cartelli con didascalie in inglese e foto, Hezbollah catturò tre soldati israeliani, i cui corpi furono restituiti poi al governo israeliano nell'ambito di uno scambio di prigionieri, che comprese anche l'ex colonnello israeliano Elhanan Tannenbaum sequestrato alcuni anni prima.

Tuttavia, in questa città tendenzialmente sunnita, la presenza visiva di Hezbollah è pressoché assente, ed anche dell'esercito nazionale libanese, e per gli stretti vicoli che la percorrono sono affissi solo poster dell'ex primo ministro Rafiq Hariri, assassinato lo scorso febbraio a Beirut, cui si affiancano solo alcune sporadiche e sbiadite foto dello sceicco Yassin, defunto capo spirituale di Hamas.

"Io non li vedo, e se li vedo faccio finta di niente, a me interessa solo il mio lavoro, ma comunque li rispetto per quello che fanno, qua lo Stato libanese non esiste, non si è mai interessato di noi, solo quando gli faceva comodo per qualche loro interesse"

Attualmente non si verificano episodi di particolare rilevanza, ma il conflitto rimane latente, e la questione delle fattorie di Shebaa è diventata di vitale importanza nelle discussioni sul "nuovo" Libano, dopo che la Risoluzione 1559 delle Nazioni Unite ha sancito tra le altre cose il disarmo dell'esercito del "Partito di Dio", ed il ritiro totale delle truppe siriane. La rivendicazione di questa area, con l'appoggio di Siria ed Iran, è uno dei punti di forza di Hezbollah per continuare la resistenza contro il nemico israeliano, secondo un'ottica più regionale che nazionale, anche se numerosi esponenti dello Stato libanese e dell'opposizione ne appoggiano la liberazione.

La Siria afferma di aver ceduto allo Stato libanese, questo territorio in modo informale nel 1951, entrambi gli Stati hanno presentato all'Onu cartine geografiche che lo evidenziano, ma nonostante tutto il ritiro di Israele dal Libano è stato considerato totale dalla comunità internazionale.

"Io del 1951 non ricordo niente", dice Muhammad, "so solo che nel 1958 arrivarono i militari siriani e cominciarono a chiederci dei soldi, ed a prenderci i vestiti, ma poi abbiamo resistito e ci siamo autogovernati, almeno fino al 1967 con l'occupazione israeliana". Muhammad dice che protestarono e portarono i documenti di proprietà delle terre al governo libanese, ma questi "li perdettero" e gli dissero che "ora non valevano più i vecchi contratti, e che molti siriani avevano acquistato le terre…ma lì non c'erano altri contadini e quindi la coltivavamo noi ugualmente".

Le Mazrah Shebaa sono sempre state un territorio utilizzato dai vari governi in un gioco di rivendicazioni, il cui interesse è ben lontano dall'essere la reale liberazione totale del suolo libanese. A pagare le conseguenze di questo gioco fatto di minacce latenti e provocazioni reciproche, è la stabilità di quello che sarà il Libano che uscirà dalle future elezioni nazionali. In un paese in cui già cominciano le prime scaramucce fra le opposte fazioni, dove nei discorsi di alcuni esponenti politici si respira aria di ritorsioni anti-siriane, si discute "clientelisticamente" sull'adozione del modello di legge elettorale da adottare, e si fanno futili dichiarazioni sulla possibilità di dare diritto di voto ai turisti arabi in vacanza in Libano, il futuro si presenta particolarmente incerto.

Intanto, mentre si assiste al trionfale ritorno del ex colonnello Michel Aoun dal suo esilio di quindici anni in Francia ed è pronta l'amnistia a favore di Samir Geagea, leader delle Forze Libanesi, paesi vicini come Iran ed Israele, occupando il posto riservato alla Siria, cominciano a prendere posizioni aperte sul nuovo Libano. La questione di Shebaa, in questo groviglio geopolitico, rimane aperta e la soluzione non sembra decisamente prossima.

"Sì, forse torneremo alle nostre fattorie, ma solo quando ci sarà un vero Stato libanese" dice Muhammad con rammarico, " perché gli arabi sembra che non esistano, se no perché avrebbero dovuto combattere continuamente fra di loro per tutti questi anni?"

lunedì 21 marzo 2005

Libano: si aprono le porte alla strategia della tensione

Martedì notte 30 kg di tritolo sono esplosi nel centro commerciale di Alta Vista a Kaslik, pochi chilometri a nord di Beirut, una zona a grossa prevalenza cristiana, causando tre vittime tra le guardie di sicurezza del centro e numerosi feriti.
Allo stesso modo meno di 72 ore prima, un'altra bomba è esplosa nel quartiere residenziale di New Jdeidh, anche questo tendenzialmente cristiano, in questo caso provocando solo numerosi feriti.
Poche ore prima era stato ritrovata una "fake-bomb", un falso pacco bomba, di fronte alla casa del presidente della stampa libanese.

Tutti e tre gli attentati sono ancora senza rivendicazione, e risulta strano in un momento tanto delicato della vita libanese.
Entrambi gli attentati dinamitardi, azionati probabilmente da un detonatore con timer fissato in orari notturni, e quindi con scarsa o nulla presenza di persone, non sembra avessero come obiettivo quello di provocare una vera e propria strage indiscriminata di civili.

Intanto si cominciano ad accavallare le notizie, o leggende metropolitane, su altre bombe disinnescate vicino alla sede del Parlamento o all'interno dell'Università libanese, o si intensifica la psicosi collettiva di fronte a qualsiasi pacco, borsa abbandonata o macchina sospettosa.

Già dopo la morte del presidente Hariri, gli abitanti di Beirut avevano cominciato a disertare le zone più affollate. La glamourosa Downtown, con i suoi bar ed i suoi ristoranti dove un caffè può costare 6$, hanno cominciato a svuotarsi, lasciando spazio in ogni angolo ad agenti in uniforme o militari armati di kalashnikov.
I gestori stanno vivendo una crisi economica senza precedenti, dopo la fine della guerra civile nel 1990.
Gli stessi giovani della capitale, allarmati dalla minaccia di attentati, disertano in queste settimane la centrale Rue Monot, i cui locali sono il principale ritrovo notturno della città, e preferiscono le discoteche ed i bar di Byblos o Batroun, una cinquantina di km a nord di Beirut.

Dopo l'attentato che è costato la vita all'ex primo ministro, nonché grande uomo d'affari a scala mondiale, Rafiq Hariri, la situazione in Libano risulta ogni giorno più complicata ed incerta. Tutta l'opposizione compatta si affanna ad incriminare i servizi di sicurezza siriano-libanesi, che vogliono dimostrare l'instabilità del paese nel caso di ritiro delle truppe siriane.
Le truppe siriane, in base alla forte pressione interna libanese, ma soprattutto internazionale, grazie alla Risoluzione 1559 delle Nazioni Unite promossa da Francia e Stati Uniti, stanno ripiegando verso la Valle della Beeka, e sembra che sul territorio rimangano attualmente unicamente 11.000 effettivi. Anche i servizi di sicurezza siriani stanno evacuando i loro uffici sparsi un po’ in tutto il paese, ma soprattutto nella zona prossima al confine con la Siria. La stessa base di Beirut nel vecchio hotel Beau Rivage, sul lungomare della Corniche, che rappresentava fino a poche settimane fa uno spettro per la libertà di pensiero anti-siriano nella capitale, è stata evacuata e sostituito il personale da agenti libanesi.
Ma sono ancora in molti a pensare che per eliminare completamente la presenza dei servizi siriani dal Libano siano necessari non meno di quindici o venti anni.

Si può forse congetturare che tali attentati rispecchiano un vuoto di potere nel regime siriano? Di certo il presidente Bashar Al-Assad, salito al "trono" nel 2000 dopo diverse faide interne, non ha lo stesso carisma del padre Hafez, che aveva governato il paese con autorità per trent'anni, e non è strano che qualcuno possa approfittarne in questo momento tanto delicato per il paese. Una cosa che potrebbe indirizzare verso questa tesi è il continuo valzer di posizioni e dichiarazioni all'interno dell'opposizione libanese, sul ruolo del presidente cristiano, ma filo-siriano Lahoud.
Dopo averne insistentemente chiesto le dimissioni in seguito all'assassinio di Hariri, il politico druso che sta dirigendo l'opposizione Walid Jumblatt, nell'ultima settimana sta smorzando i toni nei suoi confronti, arrivando ad affermare che deve rimanere in carica fino alle elezioni di maggio, per non creare un vacuum politico.
Queste dichiarazioni seguono di pochi giorni il viaggio dello stesso Jumblatt al Cairo, dove si è incontrato con il presidente Mubarak, che sta cercando di prendere le redini del mondo arabo, e gioca un ruolo diplomatico fra le varie fazioni in disputa tra loro. Pochi giorni prima di quest'incontro il presidente egiziano era stato a Damasco per incontrarsi con il suo corrispondente siriano.

Da qui le probabili rassicurazioni da parte di Assad sul ruolo della Siria in Libano, pressato ormai da tutta la comunità internazionale e con numerose sanzioni economiche in processo di attuazione.
Intanto in terra libanese numerosi cittadini siriani sono stati uccisi, e si registrano quotidianamente atti di vandalismo nei confronti dei loro beni, nonostante l'indifferenza con cui si tratta tali notizie.
Il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, quantifica, in una recente intervista, di 20 o 30 i cittadini siriani morti dal giorno dell'attentato a Hariri, ed anche il quotidiano Daily Star riporta giornalmente notizie di atti violenti nei confronti di questa parte della popolazione libanese, soprattutto lavoratori emigrati.
La cifra è considerabile ed allarmante, ma di fronte ad altre questioni di maggior "importanza", passa inosservata tra la cittadinanza.

Quindi, come possono considerarsi tutti questi atti, come le bombe in quartieri residenziali o centri commerciali in orari di chiusura, se non con una chiara intenzione di propagare una certa strategia della tensione, ed un'allarmante psicosi-bomba collettiva, in grado di far ritornare il pensiero ai tremendi anni della guerra civile?
Gli obiettivi fino a questo momento si sono incentrati sulla comunità cristiana, e si può quindi forse pensare al tentativo di riattivare quel conflitto confessionale tra musulmani e cristiani, che le manifestazioni di piazza cercano di sorpassare?
Attualmente visto che non sembra di interesse a nessuno, sia dal punto di vista politico-oligarchico che economico, accendere un'altra guerra civile, si può presumere che saranno presi di mira altri obiettivi "confessionali"?

Per le strade di Beirut già corrono voci "segrete" su luoghi, zone o quartieri dove è sconsigliato andare, e tra la gente non si riscontra troppa positività sul futuro prossimo. Si recrimina una mentalità ancora antica, di divisione fra le varie comunità, e di una solo apparente fratellanza creata con l'unico obiettivo di spingere la Siria fuori dal paese.
La strada da qui alle elezioni di maggio, di cui molti dubitano che effettivamente si svolgeranno, è tortuosa e pericolosa.
La speranza è che tutti questi interrogativi ed il pessimismo facciano spazio ad un futuro più roseo per il paese dei cedri.

martedì 15 marzo 2005

La primavera di Beirut, verso la rivoluzione dei cedri?

In un pomeriggio come altri, in questi emotivi giorni di Beirut, mi soffermo a bere un caffè in Bliss Strett, in una di queste caffetterie dove puoi sederti, sorseggiare un caffè ed assistere con gusto ai movimenti della città.
Il mio sguardo, forse ad una prima superficiale occhiata, non può che rimanere esterrefatto dalla quantità di auto di lusso che sfrecciano nel caotico traffico di Beirut: mercedes, bmw, porsche, ma soprattutto mastodontici fuoristrada che sembrano poter mangiare l'asfalto, ma che inesorabilmente sono bloccati dai costanti ingorghi e devono dividere, a suon di clacson, la grigia e sconnessa strada con automobili ben più modeste o addirittura con antiche mercedes degli anni cinquanta, a volte senza un finestrino, a volte con la ventola del motore in bella vista, in grande maggioranza sono i cosiddetti servicee, ovvero taxi collettivi che raccolgono clienti ai lati della strada mentre ti conducono a destinazione, per il modico prezzo di mille lire libanesi.
Veri e propri assi del volante questi tassisti popolari che, oltre a doversi districare nella giungla di Beirut, danno anche un occhio alle persone che apparentemente stanno cercando un taxi, e di cui rapidamente verificano se la destinazione è compatibile con i passeggeri che ha a bordo.

Sicuramente il primo impatto con la città è questo, una grande diversità culturale e sociale che convive in prossimità vicendevole.
Bliss Strett si trova nel quartiere di Hamra, che prende il nome dall'omonima via commerciale che scorre parallela. Ritornando indietro negli anni, come minimo di quindici, si potrebbe ricordare che era situata nella cosiddetta Beirut Ovest, dove risiedeva la comunità musulmana durante gli sconvolgenti eventi della guerra civile.
Oggi questa divisione fra un Ovest, musulmano ed un Est, tendenzialmente cristiano, è stata generalmente rimossa dalla gente, come dimostrano le quotidiane manifestazioni che uniscono cristiani e musulmani.
Hamra, è la zona dell'AUB, l'Università Americana di Beirut, un'istituzione per tutti gli studenti del Medio Oriente in quanto a qualità di insegnamento, ma ugualmente non facilmente accessibile a tutte le tasche.
Qui ci sono le più famose catene americane di fast-food, ma anche piccoli chioschetti che vendono una delle pietanze tipiche libanesi, il mannoushi, una sorta di piadina romagnola ripiena di formaggio, cetrioli, pomodori, olive e foglie di menta, e che rappresenta uno dei più rinomati snack con cui cominciare la giornata, soprattutto se sei uno studente e puoi permettertelo per un prezzo irrisorio.

Ma questo quartiere è anche considerato il feudo del defunto ex-Presidente del Consiglio, musulmano sunnita, Rafik Hariri, ucciso, nonostante i suoi super moderni servizi di sicurezza, da trecento kg di tritolo nel giorno di San Valentino di questo stesso anno.
Caso strano ha voluto che il supposto kamikaze, o l'autobomba o altre ipotesi che ancora gli inquirenti devono verificare, abbia stroncato la sua vita, e quella degli uomini della scorta al seguito, proprio nella "sua" zona, sulla corniche, il lungomare di Beirut, quotidianamente affollato, soprattutto al tramonto, di venditori di mais e caffè, famiglie che fumano il narghilè, ragazzi che pattinano o corrono a lato del mare, con sullo sfondo abbondanti hotel super lusso, principalmente per ricconi sauditi del golfo che vengono a spendere i loro petroldollari nella "occidentale" Beirut.

Tutti i negozietti che affollano questa zona hanno perlomeno una foto formato poster del loro ex-presidente, e non è strano vedere sfrecciare per la strada automobili suonando il clacson, inno nazionale libanese a tutto volume, bandiere bianche e rosse sventolanti e con la carrozzeria tappezzata di sue immagini.
Hariri è diventato all'improvviso un eroe e l'icona di un cambiamento che molti libanesi aspettavano per ribellarsi allo status quo delle cose che duravano dall'inizio degli anni novanta, ai tempi della fine della guerra civile, che sancì la presenza sul territorio libanese, attraverso accordi internazionali, dell'esercito siriano.

Tantissimi abitanti di Beirut portano sulla giacchetta un fiocco azzurro, simile a quello della lotta contro l'Aids, con la foto del defunto presidente sunnita.
Ma l'ex-presidente, elevato attualmente agli onori di eroe nazionale, oltre ad essere stato un benefattore per molti studenti che volevano studiare all'estero, è stato anche, imbarcandosi in un'avventura neo-liberale con l'appoggio dei sauditi, colui che per la costruzione della nuova Downtown, una fatiscente zona al centro della città che niente ha da invidiare per prezzi e glamour ai Campi Elisi parigini, ha contribuito in parte ad incrementare il debito di bilioni di dollari dello Stato libanese, ed ha espropriato, attraverso la sua organizzazione Solidere, appezzamenti di terreno a piccoli proprietari o abitanti di questa zona martoriata dalla lunga guerra civile.
Fra i libanesi circola la battuta che ogni bambino nasce con un debito di qualche centinaia di migliaia di dollari…Buongiorno Libano!Buongiorno mondo!

Ormai è passato un mese dal suo omicidio ed ancora le investigazioni brancolano nel buio, la zona del massacro è ancora sotto sequestro, il cratere provocato dalla bomba ancora rimane a cielo aperto e l'area è transennata e controllata giorno e notte dall'esercito.

Hariri si era dimesso a novembre dell'anno passato, dopo che il governo fantoccio manovrato dalla Siria aveva deciso di aumentare di tre anni il mandato del Presidente Emile Lahoud, cristiano maronita e filo-siriano, che per gli accordi di Taef del 1991 che posero fine alla guerra civile, deve essere alla presidenza della Repubblica (il Primo Ministro invece deve essere musulmano sunnita ed il portavoce del Parlamento musulmano sciita).
Da quel 14 di febbraio le manifestazioni di piazza e le concentrazioni di protesta si susseguono quasi a cadenza quotidiana, ed a ciò fa seguito un'inesorabile chiusura delle attività commerciali ed amministrative per la quasi totalità della giornata.
Musulmani sunniti, sciiti, drusi, cristiani maroniti, greci ortodossi, caldei, protestanti, armeni…risulta difficile in poche settimane sgrovigliare questa matassa composta di comunità confessionali di cui è farcito lo Stato libanese, e capire chi sta con chi e perché.

Ancora quando guardo in televisione i continui aggiornamenti sugli eventi che si susseguono e chiedo informazioni sull'uno e sull'altro politico, amici libanesi, per aiutarmi, me lo spiegano ricordandomi che uno è di Monday ed uno di Tuesday, in base ai giorni in cui abitualmente manifestano l'una o l'altra fazione.
In teoria la divisione nel contenzioso è fra la opposition, che riunisce in linea di massima sunniti, cristiani maroniti e drusi, e loyalist, gli sciiti principalmente, ma non solo, leali al governo manovrato da Damasco.

Quello che più contraddistingue le due parti è sicuramente la divisione sul ruolo della Siria nella politica del paese, da una parte la sua ritirata è il primo obiettivo, mentre dall'altra c'è un appoggio incondizionato alla sua presenza.
Una parte concentrata stabilmente giorno e notte, subito dopo l'omicidio di Hariri, con un accampamento in Piazza dei Martiri, adiacente al grande stand allestito dai seguaci dell'ex-presidente, dove è stato seppellito insieme alla sua scorta, e luogo di quotidiano pellegrinaggio per gli abitanti di Beirut, che vengono a pregare sulla sua tomba ornata di fiori e candele, e dove scorazzano una decina di colombe bianche.
Dall'altra parte, principalmente Hezbollah, il "partito di Dio", musulmano sciita, con forti legami con Siria ed Iran, e che fa presa sulle persone più povere della società grazie alle sue organizzazioni caritative, principalmente nei sobborghi meridionali di Beirut e nel sud del paese, al confine con il "demonio" Israele, che con la sua lotta ha conseguito scacciare nel 2000 dalle terre libanesi.
Il partito di Hassan Nasrallah, segretario generale del partito, si è riunito con una concentrazione di centinaia di migliaia di seguaci a pochi metri dalla piazza dei Martiri, simbolo dell'opposizione.

Da quel momento sono cominciate le battaglie di cifre fra le parti, sulla qualità o quantità dei manifestanti, ed hanno cominciato a circolare mirabolanti racconti, come quella che voleva che fossero arrivati cinquemila autobus di sostegno direttamente dalla Siria, o del fatto che in piazza erano presenti un milione settecentomila persone, la metà degli abitanti dell'intero Libano...

Il dato di fatto è che quel martedì di marzo, prima manifestazione pro-governativa e pro-siriana, le strade della città erano completamente vuote, vuoi per la presenza massiva alla concentrazione, vuoi per il clima di tensione che aleggiava nella città, per paura che una scintilla potesse accendere pericolose ritorsioni alla fine del comizio. Le stesse ambasciate straniere erano arrivate a sconsigliare ai propri connazionali di non uscire in strada quel giorno.

Un altro dato di fatto è stato invece quello che la dimostrazione è stata completamente pacifica, nonostante i toni aggressivi contro gli invasori sionisti ed americani, e di ciò bisogna dare atto a Hezbollah, ed ai suoi seguaci, come prova di grande maturità politica: una realtà non completamente accettata dall'opposizione.
Certi toni radicali non mancano neanche nella "progressista" opposizione, dove alle manifestazioni di piazza è possibile riconoscere una certa quantità di personaggi vestiti completamente di nero, che all'inno nazionale alzano il braccio in stile nazi-fascista: sono i falangisti cristiani radicali, un'organizzazione paramilitare nata prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, che durante la guerra civile libanese si macchiò degli orrendi massacri dei campi di Sabra e Chatila, dove migliaia di rifugiati palestinesi furono barbaramente massacrati.

Ed io non ho potuto assistere che con raccapriccio a certe manifestazioni, soprattutto per il fatto di vederli contemporaneamente a fianco di giovani, ragazzi e ragazze multicolore che chiedono, bandiera libanese alla mano, un futuro di democrazia, convivenza nazionale e progresso.

Allo stesso tempo è continuamente sotto i propri occhi vedere sfilare per il centro mercedes ultimo modello con la bandiera libanese sventolante e clacson strombazzante, una visione certo non consueta.
La prima considerazione che mi viene alla mente è quella che, mentre un tempo Beirut era divisa tra Est ed Ovest in una guerra fratricida e confessionale, oggi questa divisione è forse più tra Nord e Sud, tra ricchezza, agi, centri commerciali fatiscenti, i ricchi quartieri di Verdun ed Achrafieh intrisi di uno stile di vita "occidentale", contrapposto ad un Sud fatto di famiglie numerose, campi di rifugiati e sobborghi per nuovi immigranti provenienti dall'Asia.
Risulta particolarmente difficile capire questo paese dove sembra che non esista una vera classe media, ma dove predomina un invalicabile divario economico tra persone che vivono quotidianamente l'una accanto all'altra.

Beirut è contrasto allo stato puro; ci sono zone come Downtown, dove un caffè espresso può raggiungere il prezzo di ottomila lire libanesi, equivalenti alle nostre vecchie lire italiane, e mi chiedo in quali piazze europee si possa pagare tale cifra, ed a cinquecento metri di distanza magari un edificio ancora crivellato dai colpi di mortaio della guerra civile e completamente in disuso.
Tutto si può pagare in dollari con una certa consuetudine ed è una constatazione evidente che il dialetto libanese è farcito di vocaboli inglesi come please o sorry, che capita di sentire anche dallo speaker di turno alle immense manifestazioni di piazza.
Nonostante tutta questa differenza sociale la situazione di questo "evento storico", che mette di fronte due modi di vita e culture differenti, non sembra particolarmente irrespirabile, anche se la presenza di transenne di cemento nei pressi di qualsiasi edificio governativo o ambasciate o banche internazionali, dell'esercito nelle strade armato di kalashnikov e di qualche carro-armato durante le manifestazioni, denotano una certa situazione di tensione.
Inoltre lo spettro della guerra civile, dove ci si fronteggiava casa per casa, è ancora particolarmente prossimo, neanche il tempo di una generazione è passato.

Anche tra i giovani esiste e si riscontra la tendenza ad evitare, in questi giorni, posti affollati come bar e discoteche della capitale, considerati possibili obiettivi terroristici, e si preferisce uscire in locali di Byblos o Batroun, rinomate località turistiche nel nord del paese, ma distanti solo poco meno di un'ora da Beirut.
Resta difficile capire in poco tempo una città come Beirut, un agglomerato di convivenza fra identità, culture e religioni il più delle volte in contraddizione fra di loro, e dove non è strano vedere ostentare scomodamente, da parte dei suoi abitanti, i propri segni di appartenenza identitaria, come la croce cristiana o la sciabola simbolo degli sciiti.

Ricordo di aver letto un articolo, poco prima dello scoppio della "primavera di Beirut", in cui Hamid Dabashi, uno studioso del Medio Oriente che attualmente vive a New York, descriveva la città come "ancora patologicamente confessionale, ma in cui un qualcosa nel cuore del confessionalismo sta desiderando rifiorire e dare frutti di tolleranza religiosa".
Probabilmente, la sensazione provata da Dabashi era nel giusto cammino, ed è questa forse la sfida più grande che sta vivendo la società libanese in questo periodo storico, a detta di molti unico nella sua specie, in cui si lotta per la "democrazia", ed in cui i giovani, che principalmente popolano le piazze in questi giorni, credono fermamente in una evoluzione della società, imparando dagli errori di un passato ancora troppo vicino, e per un superamento delle contrapposte identità culturali.