giovedì 24 agosto 2006

Il Janub, ovvero il sud del Libano e della sua capitale

Reportage nel “meridione” del paese dei cedri durante la prima settimana di tregua.

Il villaggio di Debel si trova a cinque km di distanza dal confine con Israele, ed è stretto nella morsa di Aita el Chaab e Bint Jbeil, i paesi dove forse più si è sofferto la guerra e che maggiormente sono stati bombardati dall’artiglieria israeliana e dal fuoco di Hezbollah. Debel è un villaggio a stragrande maggioranza cristiano-maronita, e lo si può notare dai poster del leader delle forze libanesi Samir Geagea appesi ad ogni angolo e dalle rappresentazioni sacre ai cigli delle strade. Un’altra caratteristica della città, rispetto alle circostanti, è la presenza su numerose case di sventolanti e grandi bandiere bianche. La città è in gran parte intatta, sembra solo svuotata dei suoi impauriti abitanti, ma è strano incontrarsi un villaggio in queste condizioni ad appena cinque minuti di distanza da Bint Jbeil.

Bint jbeil è concretamente inesistente. I segni di una battaglia campale sono evidenti, o come piace definirlo ai media, di una chiara lotta “casa per casa”, così come degli effetti dei bombardamenti dall’alto. La parte antica di questa cittadina di ventimila anime è stata rasa al suolo e gli edifici ancora in piedi e non ridotti in calcinacci, sono sventrati almeno per metà. Televisioni penzolanti, pali della luce inarcati sulle strade, macchine parcheggiate di cui restano solo le sagome e scorci di mobilio in case all’aria aperta, sono il panorama più ricorrente. Tra i vicoli della città camminano, oltre a pochi disperati abitanti della città che constatano le condizioni delle loro case, quasi unicamente persone con blocco alla mano e bomboletta spray. Segnano le case distrutte con cifre in spray rosso e scrivono alcune note sul blocco che hanno nelle mani. Sono probabilmente membri di Hezbollah che si sono messi velocemente al lavoro per contare i danni ed identificare le famiglie che riceveranno il sussidio annuale promesso da Hassan Nasrallah. Non sarà possibile ricostruire Bint Jbeil, considerati i danni sofferti, ma quasi certamente “risorgerà” in un’altra posizione.

A differenza di Bint Jbeil, Aita el Chaab presenta più quella tipologia già sperimentata dall’esercito israeliano in Gaza e Cisgiordania. Qui sono entrate in scena le ruspe israeliane ed in buona parte hanno livellato il villaggio. La peculiarità di Aita el Chaab sta nel fatto che si possono incontrare, per la gioia della propaganda di Hezbollah, alcuni resti dei mezzi militari israeliani. Carcasse che già sono diventato simbolo, e che già sono sovrastate da bandiere di Hezbollah e del Libano. L’esercito israeliano, come affermano alcuni testimoni oculari, ha accuratamente raccolto tutti i resti che avrebbero potuto denotarne una sconfitta o forti perdite; una minuziosità che non ebbero durante il ritiro dal Libano nel 2000, quando lasciarono numerosi mezzi militari sul campo, ed in seguito furono trasformati in “monumenti” della liberazione da Hezbollah.

I soldati israeliani non si vedono, e l’unica presenza visibile è quella di un dirigibile bianco che staziona sospeso in aria nei pressi della frontiera a Nord di Bint Jbeil. Della presenza dei soldati israeliani rimangono solo i resti delle bottiglie d’acque consumate durante il caldo infernale dell’offensiva d’agosto (rigorosamente di marca israeliana) e le nuove “strade” di terra battuta spianate dagli ormai sfortunatamente famosi merkava, che scendono dai crinali montagnosi e si perdono oltre il confine. L’esercito libanese sta lentamente “occupando” alcuni edifici pubblici nel sud per farne nuovi quartieri generali, ma ancora è lontano dal confine con Israele, e nelle città più martoriate non se ne intravede alcuna traccia. Per quanto riguarda le forze d’interposizione dell’Unifil, anche in questo caso, solo alcuni sparuti carri-armati in pochi villaggi.

Questo è in linea di massima lo scenario dei villaggi del sud del Libano nella strada che da Cana porta e Bint Jbeil e da qui scende, parallelamente al confine, fra piantagioni di banani ed ulivi, fin verso Naqura. Le eccezioni sono date da qualche villaggio cristiano (molti sono stati ugualmente vittime dei bombardamenti) e da alcune sfarzose case principesche, probabilmente di ricchi emigranti sciiti che hanno fatto fortuna in Africa. Tutto questo è sintomatico e aiuta a chiarire gli obiettivi della guerra delle scorse settimane. Il concetto colonialistico del divide et impera sembra che sia stato riproposto ed utilizzato questa volta con la variante della distruzione. Divisione e distruzione sembra che siano state le variabili utilizzate durante quest’estiva offensiva israeliana in Libano. Da un lato, “bombardando” la popolazione con volantini propagandistici (e sms alla telefonia mobile) inneggianti al sollevamento contro Nasrallah, e dall’altra, colpendo un’intera popolazione nelle sue infrastrutture più basiche.

Si sono colpite le cosiddette roccaforti di Hezbollah per debilitarne soprattutto il sostegno della sua popolazione meno abbiente, forse quella che più materialmente contribuisce con uomini alla “resistenza” del partito sciita. La stessa tecnica è stata utilizzata a Dahia, nell’agglomerato urbano del sud della capitale libanese, feudo sciita per eccellenza e rinomata sacca di povertà. Qui è stata rasa al suolo la supposta residenza di Hassan Nasrallah e l’edificio della televisione Al-Manar, che simbolicamente continua a trasmettere tra le macerie. Per entrare nell’area di Dahia, è necessario un lasciapassare rilasciato da un banchetto ad ogni entrata dell’area di sicurezza con rappresentanti di Hezbollah che controllano i documenti. La presenza del Partito di Dio è constatabile, anche se è possibile intravedere ben pochi miliziani armati, ma piuttosto coloro che più chiaramente fanno parte del servizio di sicurezza e non sono certo guerriglieri. A Dahia, così come nel Sud è molto difficile identificare elementi di Hezbollah. La presenza di Hezbollah è data invece dai cartelli propagandistici a sfondo giallo fosforescente che campeggiano nelle strade dei villaggi e nei suburbi. I messaggi sono di una forte ed ironica drammaticità in stile “The great middle beast”,“This is your democracy” ed ”Extremely accurate target” di fronte a casa rase al suolo, e con nel contorno alcune invettive contro Condolezza Rice. A livello propagandistico, la strada che da Beirut porta all’aeroporto è quella probabilmente più suggestiva. I cartelloni, normalmente pubblicitari, sono stati sostituiti da quelli della Divine Victory, che alterna immagini di guerriglieri in marcia al tramonto, vecchi in lacrime con macerie sullo sfondo, bambini feriti e batterie di razzi katiuscia pronti al lancio.

Il janub, il sud, in tutte le sue forme e connotazioni, è l’elemento che simbolicamente si è voluto colpire con questa guerra. Un janub che in Libano, e nella sua capitale, è pressoché sinonimo di comunità sciita. Il nord di Beirut ha ricevuto solo simbolici e dettagliati bombardamenti. Entrambi i fari della capitale sono stati minuziosamente colpiti con una precisione accurata. Così è stato anche per il nord del Libano, colpito principalmente nelle zone a ridosso della frontiera siriana ed in alcune infrastrutture di viabilità. Sono proprio queste infrastrutture che sono state rase al suolo completamente nel sud del Libano ed in minima parte nel nord, allo scopo di raggiungere il funzionale obiettivo di dividere la popolazione libanese al suo interno. La strada che dai sobborghi di Beirut porta fino a Sour è stata spogliata di tutti i ponti che la collegano alla montagna. Ogni singolo ponte (forse una o due eccezioni per un totale di una trentina di ponti) è stato bersagliato millimetricamente e reso inagibile, così com’è successo con tutte le stazioni di rifornimento. I due bersagli strategici principali. Ma quello che più rabbrividisce, è la presenza delle carcasse di automobili ai lati della strada, senza alcun segno di distruzione circostante. Quasi tutte con il muso diretto verso Beirut, verso un nord sicuro, ed emblematico della precisione dell’aviazione israeliana nel bombardamento di civili in fuga o di improbabili “terroristi”. E’ difficile, guardando i rottami di queste vetture, pensare all’errore umano. Sfortunatamente non sono i civili in fuga, le stazioni di servizio ed i ponti, le infrastrutture utilizzate dal “terrore” di Hezbollah, ma elementi essenziali per il sostentamento di tutti i cittadini, com’è stato sottolineato nell’ultimo rapporto di Amnesty International. La propaganda israeliana a livello di mainstream mondiale ha sempre indicato la distruzione di obiettivi strategici e funzionali all’annientamento di Hezbollah. Sono le varie industrie del latte, della plastica e farmaceutiche, dislocate in varie zone del paese, e bombardate dal cielo, parte essenziale dell’infrastruttura del “terrore”? Il tentativo di debilitare profondamente la concorrente economia libanese è stato uno degli altri “effetti collaterali” di questo mese di campagne via terra e raid aerei. L’offensiva in Libano è stata una guerra che ha avuto come obiettivo quello di annichilare Hezbollah, ma che si è avvalsa del tentativo di rompere il fragile equilibrio libanese, utilizzando morti, e disagi per tutta la nazione, come mezzo per raggiungerlo. Insieme con il tentativo di smantellamento della maggioranza della popolazione sciita si è cercato di provocare un intero paese, e la sua popolazione, alla rivolta interna e quindi renderlo innocuo verso l’esterno. Lo Stato libanese, in mezzo a tutto questo, è rimasto assente, stretto nella morsa degli amici americani e dei nemici siriani, e continua ad esserlo anche nel dopoguerra. Il risultato è chiaro sul tavolo. Hezbollah si è rafforzato enormemente, ha acquisito ancora maggiore credibilità, sia su scala regionale che nazionale, ed è diventato ormai sinonimo di struttura “semi-statale”. Dall’altra parte, lo Stato libanese, o meglio, le forze che già in precedenza si trovavano in opposizione ad Hezbollah, nonostante l’ottimo diplomatico atteggiamento utilizzato durante la guerra, si stanno leccando le ferite cercando di riacquistare sovranità. Mentre ognuno canta la propria vittoria, mentre tutti aspettano il secondo round della guerra, e l’arrivo di un’ipotetica forza multinazionale con la bacchetta magica della pace, il Libano intero, in bilico tra stabilità e precipizio, è in ginocchio e fatica a risollevarsi.