mercoledì 30 agosto 2006

Beirut, si ricomincia dalla distruzione

Un mese e mezzo di guerra è appena terminato, ma lo spirito gioviale ed affarista che contraddistingue i libanesi non si è piegato alla logica della guerra e della distruzione, e già sta provando a risollevarsi. Così che, in questi giorni, per le strade della capitale, si possono incontrare alcuni manifesti pubblicitari sicuramente curiosi. Una nota marca internazionale di whisky, che ha come logo un omino stilizzato che cammina in paesaggi urbani altrettanto stilizzati, sta proponendo una serie di cartelloni con il solito omino camminando su un ponte. La differenza è che il ponte questa volta è stato disegnato senza un pezzo, come distrutto da un bombardamento. Il logo della marca, Keep walking, sembra ormai emblematico della personalità libanese. La macchina dell’advertisment post-guerra non si è fermata neanche di fronte al peggior nemico. Le pubblicità di diversi istituti di credito, giocano molto sulle parole distruzione-costruzione e fanno leva sui bisogni popolari, sfoggiando indicatori del serbatoio di benzina su empty, ed offrendo, a chi apre un nuovo conto corrente, la possibilità di vincere un buono acquisto da 1000$ di preziosa gasolina. I libanesi decisamente non finiscono mai di sorprenderci. Questa è una delle facce del dopoguerra, l’altra, nel suo contrasto, è quella della propaganda allestita da Hezbollah, nei quartieri del sud della capitale e nella strada che dal centro va verso l’aeroporto. Poster giganteschi che inneggiano alla Divine Victory, e che con certa ironia si prendono gioco della potenza americana, con scritte come This is your Democracy, di fronte ad un edificio raso al suolo, o Extremely accurate target, sullo stesso sfondo di distruzione.

Da una parte quindi l’affarismo neofenicio libanese, e dall’altra, la rivincita popolare antiamericana e la resistenza contro l’invasore israeliano. Contraddizioni? Forse, ma anche semplicemente due facce di una stessa medaglia, di uno stesso Stato, che non necessariamente si scontrano, ma che anzi spesso riescono a complementarsi armonicamente.
La strada è sintomatica di come si stia vivendo la conclusione del conflitto. Da un lato la ricostruzione e l’assenza di benzina, dovuto all’ancora vigente blocco selvaggio israeliano. Dall’altra, la grande influenza e popolarità che ha guadagnato Hezbollah, e soprattutto il suo leader Hassan Nasrallah.

La ricostruzione in Libano è un business che nessuno può permettersi di lasciarsi sfuggire. Un business che è direttamente proporzionale all’accrescimento di consenso popolare. Alla proposta di Nasrallah, di offrire 12000$ ad ogni famiglia senza casa, hanno risposto soprattutto i leader comunitari, singoli individui e businessman con particolari interessi, che si stanno spartendo specialmente la ricostruzione dei ponti distrutti. I ponti, infatti, sono fra le infrastrutture che più hanno patito l’attacco israeliano. La strada che da Beirut lungo la costa conduce fino a Naqura, al confine sud con Israele, è stata letteralmente privata di tutti i suoi collegamenti fra il mare e la montagna. Con una precisione millimetrica sono stati bombardati sistematicamente uno per uno tutti i ponti, per evitare che “i soldati israeliani rapiti fossero portati via”, o più chiaramente per mettere in ginocchio le infrastrutture libanesi e “rimandare il Libano indietro di venti anni”, come dichiarò un membro del governo israeliano all’inizio delle ostilità.

La benzina è l’altro problema principale. A parte il fatto che il prezzo è cresciuto enormemente, si assiste quotidianamente a code d’automobili in attesa alle poche stazioni di servizio aperte. Nel sud, ed a Baalbeck, invece, le stazioni di servizio sono state minuziosamente bombardate. Il costo del servis, il taxi collettivo della capitale, è salito da 1000 a 1500 lire, ed a parte i numerosi battibecchi a cui si assiste in questi giorni, ogni conducente si prodiga nello spiegare quanti problemi abbiano col rifornimento.

Da un lato quindi, questa è la vita quotidiana della gente che è stata colpita dalla guerra di forma indiretta. Dall’altra parte c’è il raccapricciante spettacolo che offrono i suburbi di Beirut ed i villaggi del sud del paese. Mentre nei suburbi ad essere stati rasi al suolo sono interi quartieri con palazzi di 10-15 piani, nel sud del paese, l’unità di misura è quella del villaggio, della cittadina. Qui le case sono crivellate dai colpi o sventrate per metà, lasciando ancora intatto a volte il mobilio precedente. La cittadina di Bint Jbeil, nel profondo sud, a cinque km dal confine, è poco più che un ammasso di macerie. Niente si è salvato di un paese che lascia i segni visibili di una battaglia campale, e che sicuramente sarà ricostruita in un’altra posizione.

Provate ad immaginare di attraversare un paese di 15000 abitanti ed incontrare alla vostra destra ed alla vostra sinistra solo macerie di case, rottami d’auto accartocciati, pali della luce inarcati sulla strada; poi decidete di entrare nella parte vecchia della città, constatando come le bombe abbiano bussato rispettosamente a tutte le porte, e si possano intravedere fra le macerie scarpe, vestiti, giornali e ventilatori penzolanti da luoghi improbabili.

Le tracce dell’esercito israeliano, ancora presente in alcune zone del sud, si palesa quando s’incontrano le “nuove” strade spianate dai carri-armati israeliani, i famosi merkava, i resti degli approvvigionamenti dell’esercito con la stella di David ed un dirigibile che sorvola e controlla il confine. Il contrasto tra questa regione del Libano completamente distrutta e lo splendido paesaggio che offre alla vista, fatto di piantagioni di banane sulla costa e coltivazioni di tabacco al suo interno, è spaventoso. Molte delle case distrutte ancora hanno in bella vista le foglie di tabacco lasciate ad essiccare, un prodotto di lavorazione popolare, e simbolo di come la distruzione e la contaminazione provocata dalle bombe sganciate abbiano mandato in rovina il lavoro passato e futuro di una parte della popolazione più povera del Libano.

Intere famiglie intanto tornano verso le loro case, nel sud e nei quartieri meridionali di Beirut. Con gran coraggio lo hanno fatto già mezz’ora dopo l’inizio del cessate il fuoco. Cercano fra le rovine quello che è possibile salvare della propria casa, discutono con gli agenti di sicurezza perchè non gli è permesso di andare in zone ancora non bonificate dalle bombe inesplose, ma soprattutto, e di fronte ad uno spettacolo che non può non lasciarti inerme, ricominciano a riparare il riparabile.

La guerra ha portato distruzione, l’intento di sradicare la popolazione sciita, ed il tentativo di mettere in ginocchio l’economia libanese, forte concorrente d’Israele nell’area mediorientale. Inutile evidenziare che la più grande fabbrica di latte del Libano, ridotta in macerie dai bombardamenti israeliani in una zona isolata del paese, non sia certo parte della “infrastruttura del terrore” di Hezbollah, che Israele proclamava di distruggere. Inutile evocare l’imprecisione nei bombardamenti, quando s’incrociano carcasse d’automobili colpite chirurgicamente, con tutte le sue persone a bordo, probabilmente in direzione nord. Famiglie che scappavano dalla guerra, difficilmente membri di Hezbollah.

I libanesi provano ad alzare la testa, ma sono furibondi con le nazioni che hanno nei primi giorni permesso che questa guerra proseguisse. Allo stesso tempo però, nei confronti di noi asgnabi, stranieri, sono incredibilmente più gentili e socievoli. Ancora si crede in qualcuno. In primis D’Alema, poi segue Chavez, il presidente venezuelano. Il nome di Massimo D’Alema è ormai sulla bocca di tutti, i suoi baffetti provocano simpatici ghigni fra i libanesi, e sta raggiungendo apici di popolarità che solo Nasrallah e Che Guevara possono sovrastare. Speriamo bene