domenica 16 luglio 2006

Luci spente su Beirut

Il faro di Beirut è situato in una zona molto popolare, nel quartiere di Manara, sulla Corniche, il lungomare cittadino. Nei pressi del faro c’è un popolare ristorante bagnato dagli spruzzi del Mediterraneo, e c’è il rischio di inciampare in accaniti pescatori locali. Ogni giorno al calar del sole si riuniscono sulla Corniche una promenade di beirutini, chi per passeggiare, chi per prendere un caffé, famiglie intere con narghilé e cibo fatto in casa. Portano sedie da casa, certi stendono tappeti, ed occupano tutto il lungomare; sono soprattutto famiglie dei suburbi e del sud, che non possono permettersi di “accedere” alla fatiscente Downtown, ricostruita dalle macerie della guerra con soldi sauditi e con prezzi inaccessibili a molti.

Il faro è stato oggi bombardato impunemente dalle navi da guerra israeliane appostate al largo delle coste della capitale. Probabilmente anche il ristorante, e non sembra ci sia nessuna traccia di pescatori o famiglie di Dahiya (letteralmente “suburbio” in arabo), quelle stesse famiglie che ora stanno fuggendo dai bombardamenti delle loro case costruite nel post-guerra, cercando rifugio in scuole o appartamenti vuoti in zone del centro cittadino.
Era veramente importante colpire il faro cittadino, in un Libano già isolato via mare dalle navi militari israeliane? Era un obiettivo concreto o serviva solo a distruggere un simbolo della città e mettere psicologicamente in ginocchio i suoi cittadini?

Da quando è cominciata la guerra (e mi intristisce il pensiero di denominarla in questo modo) niente sembra aver senso. Bisogna allora domandarsi se ha senso questa “guerra”, quando il governo libanese non l’ha dichiarata, ed inerme subisce i bombardamenti israeliani, vittima di una complicata dinamica di forze interne e di un difficile bilanciamento confessionale-regionale, difficilmente spiegabile nell’ottica degli stati-nazione occidentali.
Non è una guerra fra Stati, anche se Israele continua a chiamare in causa Siria ed Iran; è una guerra fra gli Hezbollah, che cercano di rappresentare il malessere delle masse arabo-musulmane, e lo Stato d’Israele.
Israele sta cercando di mettere in ginocchio la totalità della cittadinanza, e cerca di chiamare in causa anche un esercito libanese che non vuole partecipare ad una guerra che non ha cominciato e che non rispecchia il sentimento della maggioranza della nazione; ma in Libano la logica occidentale di maggioranza e minoranza non funziona, funziona il consenso ed il sentimento popolare, funziona la sofferenza e la solidarietà. Per questo il governo libanese, nonostante rifiuti le scelte militari di Hezbollah, non si sente, in un momento così difficile per il paese, di condannarne l’operato completamente. Fare fronte comune è il motto.

Nessuno in questi mesi si aspettava che la guerra potesse scatenarsi dall’esterno, tutti presagivano un ritorno della guerra civile dovuto a dissidi confessionali. Nessuno si aspettava una reazione di tale portata da parte israeliana, in seguito ad un’operazione di guerriglia della milizia di Hezbollah. In altri momenti Israele, soprattutto negli ultimi mesi, aveva risposto a tali azioni con bombardamenti mirati, ma senza cercare di colpire le infrastrutture di uno Stato che cerca ancora di risollevarsi dalla guerra precedente.
Oggi Israele invece ha voluto lasciare un segno indelebile nella cittadinanza libanese.

Ma quanti sono i guerriglieri dell’esercito di Hezbollah uccisi? Fino ad ora non se ne ha notizia, si sa che le defezioni sono fra i cittadini, famiglie, donne, bambini. Vorrei poter dire che ci sono più di 200 morti, ma nel momento che uscirà quest’articolo il mio pessimismo mi spinge a pensare che il numero di vittime triplicherà. Si triplicheranno come le diplomatiche parole dei governi occidentali.

Intanto il prezzo del pane è alle stelle e mentre prima si poteva comprare per mille delle nostre vecchie lire, ora sembra superare le ottomila lire.
Le università hanno chiuso, i negozi aprono ad intermittenza, le televisioni sono sempre accese e le scuole ancora intatte dai bombardamenti servono da rifugio per le famiglie del sud; l’elettricità ed il combustibile arrivano a singhiozzo, e scappare dal paese attraverso l’unica frontiera nel nord, verso la Siria, può voler dire pagare 500$. Un tragitto che al massimo ne costava dieci di dollari, fino a qualche settimana fa.

In Siria la strada che unisce Tartus con Homs, a ridosso del confine col Libano, è un viavai di minibus, bus, taxi, tutti si dirigono al confine cercando anche di fare affari grazie alla improvvisa situazione creatasi.
Molti in Siria, nonostante il regime imponga un’opinione controllata, hanno accolto l’appello televisivo di Hassan Nasrallah a non farsi scappare l’occasione per infliggere una sconfitta ad Israele; in molti negozi cominciano a sventolare le bandiere gialle del “Partito di Dio”, per la strada i bambini vendono le foto del leader sciita, e si organizzano manifestazioni in ogni città.

Non hanno paura della guerra i siriani, la loro forza sta nel fatto, come mi dice un negoziante di Latakia, la città natale di Bashar al Assad, che “sia loro che i libanesi sono abituati a sopportare la guerra, sono gli israeliani che non hanno mai vissuto le bombe, ad Haifa e Tel-Aviv non sanno cosa significa vivere sotto i bombardamenti, sono loro che devono aver paura, sono loro che non resisteranno per più di una settimana nei rifugi sotterranei...”. Una visione da logica di guerra difficile da comprendere e concepire, ma che ormai quotidianamente pervade le popolazioni di questa regione senza pace. Una guerra che coinvolge principalmente la popolazione civile e che provoca la “caccia aperta” per cercare di comunicare con amici e conoscenti sparsi per il Libano. Molti stranieri sono stati evacuati fra le lacrime, molti libanesi non possono permetterselo, molti sono “costretti” a restare. E’ in tutti impellente la ricerca degli amici che vivono nel sud, a Sour o Saida, totalmente isolati dal resto del mondo; chi ha la possibilità scappa negli chalet di montagna del nord, chi non ce l’ha sta a Beirut e, come ha scritto Mahmoud Darwish in un suo libro ambientato durante l’assedio angoscioso di Beirut da parte degli israeliani nell’estate dell’82, il dolce risveglio del mattino si riduceva nel gusto di assaporare il caffé, fumare la prima sigaretta, per poi rimettersi ad ascoltare la radio o la televisione e sperare...

Anche nel 1982 l’Italia vinse la Coppa del Mondo, e sicuramente i libanesi invasero le strade della capitale per festeggiare la vittoria italiana come succedette due settimane fa. Strane coincidenze che rendono la città di Beirut speciale per chi vi vive.
Beirut è una città che provoca inspiegabilmente allo stesso istante amore e odio, una contraddizione che si trasforma in intenso amore ed impotenza in questi momenti difficili. Il senso di vuoto che sale da dentro quando bombardano una città che conosci si unisce all’impotenza, e unico rimedio alla malinconia sono ormai solo le note di Fairuz che inneggiano Bhebak ia Libnan, Ia uatani bhebak, B shmelak bi jnoubak, bi zahrak bhebak... ( Ti amo o mio Libano, mia patria ti amo, a nord o a sud, ti amo nei tuoi fiori...)